Fabrizio Gatti: “Immigrazione. Ecco che ne sarà di noi”


Foto scattata da Fabrizio Gatti per L'Espresso
Foto scattata da Fabrizio Gatti per L'Espresso

Fabrizio Gatti, giornalista e scrittore, che del mestiere di inviato a seguito dei migranti ha fatto una scelta di vita, in un articolo apparso su l’Espresso del 23 aprile scorso, spiega come prenotare sette posti su un barcone di profughi sia più rapido che comprare un biglietto al numero verde di Alitalia. “Pronto? Sì, c’è una barca per voi”. Ha risposto così “Mohamed, il boss dei boss dei trafficanti in Libia, dopo un solo squillo. Ad appena sette secondi dall’inizio della telefonata da Milano a Tripoli. La sua voce pronuncia educatamente: “aiwa, sì?”.

L’intervista a Fabrizio Gatti

Alla luce dei recenti fatti di cronaca sulle stragi di migranti, Sicilia&Donna propone l’intervista effettuata a Fabrizio Gatti da alcuni studenti di un biennio del liceo scientifico di Orvieto, che sotto il coordinamento di un’insegnante siciliana, attualizzando la geo-storia, hanno realizzato un lavoro di gruppo dal titolo “L’immigrazione in Sicilia, in Italia e in Europa. Che ne sarà di noi?”

Nella foto Fabrizio Gatti
Nella foto Fabrizio Gatti

Fabrizio Gatti, da cosa è nata l’idea del travestimento per intrufolarsi, da inviato de l’Espresso, all’interno delle barche clandestine?
«Non solo nelle barche, ma anche lungo le rotte del viaggio, nel centro di detenzione di Lampedusa e tra i braccianti ridotti in schiavitù. L’idea è nata da più ragioni: lavoro come giornalista, nessuno ha raccontato il viaggio e quindi qualcuno prima o poi lo deve fare; se non vedo con gli occhi, ma anche con la pelle, le sensazioni, la fatica, che diritto ho di valutare quello che accade e raccontarne le storie? Dovevo pagare un prezzo personale per legittimare questo diritto. Mi sentivo un guardone e mi sono detto: se vuoi davvero sapere cosa accade, abbi il coraggio di andare a vedere. Vengo da una famiglia di emigranti e mi sono sempre chiesto: cosa induce a partire, qual è l’istante esatto in cui mi rendo conto che il luogo in cui sono nato non contiene più il mio futuro e perché.
Non ultimo: la politica e la maggioranza dei cittadini che alla politica danno il loro consenso hanno inventato la nuova classe sociale del clandestino. Il clandestino ha molto meno diritti di uno schiavo in epoca romana. Di quei clandestini, ho voluto restituire la dimensione umana: nome, cognome, età, descrizione del volto, motivi del viaggio, ambizioni personali, titoli di studio, desideri, famiglia, fidanzate, fidanzati, mogli, mariti, figli, lavoro, fatica. Tutto ciò che ci rende uguali. Cioè uomini e donne.»
Come ci si sente ad essere uno di loro e a rendersi conto di non possedere nulla?
«Smarriti. A un certo punto, in mezzo al deserto, ci si rende conto di essere in balia del viaggio. Noi diciamo: faccio un viaggio, siamo noi che lo facciamo e ne siamo i “proprietari”. Nella traversata è il viaggio a impossessarsi di noi con la sua fatica, il caldo di giorno e il gelo la notte, i compagni ammalati, quelli che via via si arrendono o non hanno i soldi per continuare, quelli che muoiono, le minacce e le violenze dei trafficanti. E io mi sentivo fortunato: nascosto in una tasca dello zaino avevo il mio passaporto europeo e stavo andando in Europa, cioè a casa. Lì mi sono reso conto di quanto la nostra vita e la nostra morte dipenda da due cartoncini con 32 pagine in mezzo, che è la dimensione media di un passaporto. Abbiamo ridotto l’umanità a un pezzo di carta.» immigrazione
I migranti sono consapevoli che questo “viaggio della speranza” potrà trasformarsi in viaggio di morte?
«Quando sono partito la prima volta, nel novembre 2003, non tutte. Per molti il deserto, il mare erano dimensioni sconosciute. O conosciute attraverso il mito. Oggi sulle difficoltà e i pericoli c’è più consapevolezza. Ma vivere prigionieri a vita in una caserma dell’esercito in Eritrea (dove i ragazzi della vostra età vengono prelevati dalle scuole e spediti nel deserto per il servizio militare a vita) oppure rassegnarsi alla povertà o al dominio dei terroristi (presenti oggi lungo un fronte di migliaia di chilometri dal Mali, in Africa, al Pakistan, in Asia) è sicuramente più disperante e pericoloso che attraversare il deserto o il mare. E finché non tenteremo onestamente di risolvere la questione all’origine, sarà così. Vale la pena ricordare questa storia.

Il 3 ottobre 2013, 366 eritrei annegano davanti a Lampedusa. In Libia in quei giorni erano pronte a partire migliaia di persone. Tra loro, un gruppo di medici siriani con mogli e bambini in fuga dalla guerra in Siria e poi dalla guerra in Libia. Quando vengono a sapere della tragedia a Lampedusa, lo hanno letto su Internet, si spaventano e cominciano a ripensarci. Poi un medico dice: noi siamo chirurghi, quando operiamo calcoliamo il margine di rischio prima di decidere se l’intervento aiuterà il paziente a guarire o a morire. Ebbene, continua il medico rivolto ai colleghi in fuga come lui, qual è il margine di rischio del viaggio dalla Libia in Italia? Calcolarono i 366 morti di Lampedusa diviso i 30.000 arrivati fino a quel momento, che avevano appreso da Internet (da gennaio a settembre 2013). Il risultato: 1,22 per cento. Bene signori, dice il medico siriano, noi chirurghi un intervento con l’1 per cento di possibilità di fallimento lo consideriamo sicuro e quindi lo facciamo. Decidono così di partire. Si imbarcano la sera del 10 ottobre 2013. Una motovedetta libica spara contro le fiancate del loro peschereccio. Ci sono quasi 500 profughi a bordo, un centinaio di bambini. Sette ore dopo, per i buchi che le pallottole avevano aperto nello scafo e per lo scaricabarile tra Italia e Malta su chi dovesse uscire a soccorrerli, il barcone affonda: più di 260 morti, una sessantina di bambini. Il medico che calcolò il rischio è sopravvissuto. Di sua moglie, della sua bambina e di quasi tutti gli altri non sono stati recuperati nemmeno i corpi. Ma se fossero rimasti in Libia, quei medici li avrebbero sicuramente uccisi perché pur essendo musulmani, non hanno nulla a che vedere con lo Stato islamico. Anche Hitler e Mussolini si dicevano cristiani, ma mi sembrano ben diversi dal punto di vista espresso da papa Francesco.

Se non si va all’origine, migliaia di persone moriranno ancora. E centinaia di migliaia continueranno ad arrivare. Tra le questioni all’origine da affrontare c’è anche la forte crescita demografica in alcuni Paesi come la Nigeria, non compensata da una crescita economica: che ci sarebbe, essendo la Nigeria un Paese esportatore di petrolio, ma che non c’è perché soltanto venti famiglia si dividono le principale ricchezze del Paese, grazie anche alla corruzione di varie multinazionali tra cui società europee e italiane.»
Sanno che non a tutti può essere dato l’asilo politico e che quindi molti di loro potrebbero essere rimpatriati?
«Sì, ma di fronte al numero degli arrivi, i rimpatri sono un’eccezione. È come una roulette. Tutti i giocatori sanno che qualcuno vincerà e qualcuno perderà. Ma questo non ferma i giocatori. Ci dovremmo chiedere se è giusto che per decine di milioni di persone al mondo la vita sia ridotta a una roulette.»
Ritiene giusto che solo l’Italia debba essere paese di accoglienza?

Migranti accolti
Migranti accolti

«L’Italia non è l’unico Paese che accoglie. Altri lo fanno molto meglio. Siamo comunque tra i primi cinque in Europa, ma non siamo nemmeno il primo: nel 2014, in base alle richieste di asilo, l’ordine era Germania, Svezia, Francia, Italia, Gran Bretagna. Se guardiamo anche fuori dell’Unione Europea, la classifica diventa: Libano (1 milione 200mila profughi siriani nel 2014), Turchia (quasi un milione), Germania (200.000 richieste nel 2014), Stati Uniti, Svezia, Francia, Italia, Gran Bretagna. Potremmo chiederci se è giusto che cinque Paesi della Ue condividano il 75 per cento dei rifugiati.»
Oggi come si pone il governo nei confronti del fenomeno immigrazione, e cosa dovrebbe fare, secondo lei, l’Europa per migliorare la situazione?
«L’Italia come tutti i Paesi europei provano ad affrontare il problema dai suoi effetti, gli sbarchi, e non dalle origini, le partenze. Mi spiego. Non esiste una soluzione unica, ma una possibile soluzione da condividere con ogni singolo Paese. L’Europa ha un debito coloniale con quasi tutti i Paesi d’origine della fuga. E non a caso quei cittadini vengono in Europa.Fabrizio Gatti: “L’Italia ha un debito con Somalia, Libia e Eritrea” L’Italia ha un debito con Somalia, Libia e Eritrea. Il comportamento dei nostri governi negli anni Ottanta con la Somalia e negli ultimi dieci anni con la Libia ha contribuito alla distruzione di quei due Paesi che ora sono lacerati da una guerra civile. E lì intervenire è piuttosto difficile. Concentriamoci allora sull’Eritrea: quando cominceremo a chiedere al presidente-dittatore Isaias Afewerki di cambiare la legge sul servizio militare a vita che, oltre al costo umanitario di morti e fughe, ha conseguenze economiche pesantissime sull’Italia? Quando faremo pressioni sul regime affinché adotti la costituzione democratica approvata nel 1998 e liberi i prigionieri politici, almeno quelli ancora vivi? O forse il fatto che l’Eritrea accolga e nasconda nel deserto della Dancalia i nostri rifiuti industriali tossici (provocando la morte dei pastori nomadi della regione) ci impedisce di fare richieste logiche e ragionevoli? Chi ci perde lo sappiamo: la gente. E chi ci guadagna da questo traffico? Potremmo anche rivolgerci alla Francia per ridurre gli sbarchi. Non perché siano i francesi a sbarcare. La Francia è stata una potenza coloniale in Africa. E ancora oggi, da uno dei Paesi allora occupati e ora indipendenti, il Niger, estrae uranio a pochissimo prezzo. Con quell’uranio la Francia produce un terzo della sua energia elettrica: il 33,3 per cento. Significa che una lampadina su tre, un treno su tre, un ospedale su tre, un’industria su tre sono oggi alimentati dall’uranio che la Francia estrae ed esporta dal Niger, senza le dovute compensazioni. In Niger invece il 90 per cento degli abitanti non ha accesso all’elettricità e il Paese è tra i più poveri al mondo. La domanda che dobbiamo farci è: i cittadini francesi (e anche noi che compriamo elettricità dalla Francia) siamo disposti a pagare un po’ di più la bolletta energetica affinché gli abitanti del Niger vivano meglio e ci siano meno sbarchi in Italia? Se convincete l’Europa a questo, avete imboccato la strada giusta per una soluzione contro la fuga di profughi, gli sbarchi, le rivolte, i movimenti terroristici e le crisi alimentari e sanitarie (come l’epidemia di Ebola). Il nostro governo e l’Unione Europea pensano invece di bombardare i barconi. Un atto criminale: se l’Italia avesse bombardato i barconi nei porti istriani alla fine della Seconda guerra mondiale, centinaia di migliaia di profughi che oggi vivono e lavorano in Italia sarebbero stati uccisi nelle foibe.»
Fabrizio Gatti come vede l’immigrazione per il nostro Paese, un bene o un male, perché?
«È un bene e una risorsa umana, culturale, sociale e in ultimo economica se l’economia dei Paesi d’arrivo è in crescita. Può diventare un dramma umanitario se l’economia dei Paesi d’arrivo è in recessione, come in questo periodo, perché il sistema economico non è in grado di offrire un processo di accoglienza vera e l’integrazione nel lavoro. Dal punto di vista economico, in Italia il 4,5 per cento della popolazione (cioè i cosiddetti immigrati), produce circa l’11 per cento del prodotto interno lordo. Per valutare quanto sta accadendo oggi però dobbiamo cambiare i termini: quella che vediamo nel Mediterraneo non è più immigrazione, è una fuga. Immigrazione significa avere un progetto di vita e magari anche economico, attraverso il lavoro. Ma se ci bombardano, ci sparano alla schiena, minacciano di tagliarci letteralmente la testa, oppure a 16-17 anni ci obbligano al servizio militare a vita a 7.50 di paga al mese per sempre, è diritto di ciascun essere umano cercare la salvezza. Per questo non siamo di fronte a un processo migratorio ma a una fuga. Fuga da un fronte di destabilizzazione, prima economica ma ora terroristico-militare che va dall’Est del Senegal al Pakistan. Con l’eccezione di pochi Paesi come Israele, Libano e Iran. Se guardate la carta geografica, capirete quanti milioni di persone sono coinvolte.Fabrizio Gatti: “Se non abbiamo il coraggio di provare a risolvere le questioni alle origini, l’Europa come l’abbiamo finora conosciuta è ai suoi ultimi anni”. Se non abbiamo il coraggio di provare a risolvere le questioni alle origini, l’Europa come l’abbiamo finora conosciuta è ai suoi ultimi anni. E un mostruoso disastro umanitario è alle porte, ma non ci saranno leggi, navi militari, operazioni umanitarie in grado di fermarlo.»
Che fine fanno i barconi, una volta effettuato il viaggio?
Barcone affondato«Le barche vengono accatastate a Lampedusa o ormeggiate nel porto. Qualche furbacchione italiano, non di Lampedusa, di nascosto va poi ad aprire il rubinetto della pompa di sentina, che di solito serve a svuotare dall’acqua il fondo dello scafo: se la pompa è ferma, con il rubinetto aperto lo scafo si allaga e affonda nel porto. Così lo Stato deve pagare di più per la sua rimozione. Le barche soccorse in mare aperto invece un tempo venivano affondate con lo stesso sistema del rubinetto della pompa di sentina, oppure con una raffica di mitra nello scafo. Poi il ministero dell’Ambiente protestò perché così si inquinava il mare (lo scafo può fare da tana per i pesci, ma se c’è carburante nel serbatoio ovviamente il carburante galleggia e inquina il mare). Così ora gli scafi vuoti, una volta salvati i passeggeri, vengono lasciati alla deriva: con grave rischio per la navigazione e anche con la conseguenza che i trafficanti libici vanno a recuperarli e li riempiono per un altro viaggio. Assurdo, ma è così. E anche qui si potrebbe fare molto: qualcuno propone di travasare olio e carburante e affondare il resto, una volta trasferiti i passeggeri. Ma spesso non c’è tempo per farlo e nemmeno le condizioni meteo per rimanere accanto al barcone. La pratica è molto diversa dalla teoria. Ogni cosa ha un prezzo: l’affondamento immediato (ovviamente senza passeggeri) sembra la soluzione più semplice, anche se inquina il mare. Il carburante messo a disposizione dei profughi comunque è sempre poco.»
Secondo lei potrebbe essere un’idea “legalizzare” il trasporto degli immigrati per smistarli anche in altri paesi e mettere in atto i dovuti controlli igienico-sanitari?

Nella foto Fabrizio Gatti
Nella foto Fabrizio Gatti

«Il paradosso da risolvere è questo: se noi Paesi ricchi abbiamo bisogno dei dittatori perché ci regalano l’energia o nascondono i nostri rifiuti tossici, per onestà dovremmo accogliere legalmente le vittime di quei dittatori. Ma non lo facciamo e non potrebbe nemmeno funzionare all’infinito. Legalizzare il trasporto degli immigrati, cioè l’apertura di corridoi umanitari, è una soluzione necessaria ma intermedia per salvare chi si è già messo in viaggio ed è bloccato in Libia e nei campi profughi sparsi tra Africa e Medio Oriente. Ma non è la soluzione definitiva: i posti che gli Stati metterebbero a disposizione non sarebbero mai in grado di soddisfare tutte le richieste, i tempi si allungherebbero e le persone troverebbero altre strade per salvarsi. È una fuga, non una partenza programmata. Ma se gli Stati riuscissero a trasferire su percorsi legali le risorse economiche incassate dai trafficanti e quelle spese dai governi in operazioni militari, di pattugliamento, soccorso, accoglienza, un sistema alternativo di assistenza e smistamento dei profughi è possibile. I trafficanti soltanto nel 2014 hanno raccolto ricavi per un miliardo e 190 milioni di euro (stima al costo di 7.000 per viaggio, deserto e tratta in mare compresa moltiplicato per i 170.000 sbarcati lo scorso anno). Dal 2011 a oggi l’Italia ha speso oltre due miliardi in accoglienza, più i costi del pattugliamento in mare (9 milioni al mese circa).»

Fabrizio Gatti e i “visti del Papa”

Quando Fabrizio Gatti viene sollecitato dagli studenti sull’appello recentemente rivolto a Papa Francesco, lui risponde facendo riferimento ai “visti del Papa”, cioè a quei permessi rilasciati dalla Santa Sede, che concedendo ai migranti il via libera nei paesi d’origine, aprirebbero dei “corridoi umani”, eliminerebbero i viaggi in mare e gli scafisti, concedendo, forse, una salvezza legale. Certo non saranno i “visti del papa” a risolvere la situazione, o perlomeno così sostengono –racconta Fabrizio Gatti- quattro preti di prima linea, Don Ciotti, Zanotelli, Rigoldi e Colmegna, ma probabilmente smuoveranno «l’inconcludente immobilismo dei ventotto governi dell’Unione Europea» e daranno tormento a coloro che «non si rassegnano alla globalizzazione dell’indifferenza, né alla trasformazione del Mare nostrum, il Mediterraneo, in Cimiterium nostrum.»

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2 Commenti

  1. Kate40
    6 maggio 2015
    Rispondi

    UN articolo veramente interessante che dà veramente notizie fondate e chiarificatrici e propone anche possibili soluzioni ai problemi.

  2. Comunità Eritrei in Italia
    8 maggio 2015
    Rispondi

    Lettera della Comunità degli Eritrei residenti in Italia
    all’Ordine dei Giornalisti Italiani (ODG)

    Egregio Presidente Dott. Vincenzo Iacopino,
    la Comunità degli Eritrei residenti in Italia Le scrive per comunicarLe il disagio che tutti viviamo da anni per colpa di giornali e giornalisti italiani che hanno preso di mira il nostro Paese pubblicando, quasi quotidianamente, articoli denigratori e infamanti sull’Eritrea. Queste incessanti e crudeli notizie ci feriscono a tal punto che ci sentiamo oramai additati e perseguitati dai media italiani.
    Se Lei, egregio Dottore, volesse assumersi l’incarico di contare quante volte, ad esempio negli ultimi due anni, i giornalisti italiani abbiano abusato del nome Eritrea vedrebbe come il nostro Paese sia l’unico, dei 54 africani, a godere di questa morbosa attenzione. Comprenderebbe così il nostro profondo malessere.
    Alcuni giornalisti in particolare ci preoccupano in quanto a toni e contenuti apparendo ai nostri occhi molto aggressivi quasi quanto una dichiarazione di guerra, mentre altri giornali sembrano essere strumenti di propaganda del governo dell’Etiopia. Secondo noi, a tutti sfugge che la storia dell’Eritrea è, purtroppo, ancora legata all’Etiopia che, nonostante l’Indipendenza del 1993, continua ad occupare illegalmente i territori sovrani eritrei e continuamente minaccia una nuova guerra. Ognuno è libero di schierarsi con l’uno o l’altro paese ma bisognerebbe dichiararlo apertamente e soprattutto, in un paese democratico come l’Italia, si dovrebbe essere disponibili al contraddittorio e offrire spazi anche ai propri avversari, una specie di par condicio.
    Purtroppo l’Etiopia, che ha scelto di essere il braccio armato degli USA, continua di fatto a destabilizzare tutto il Corno d’Africa ed è proprio con l’avallo del suo alleato che da 13 anni si rifiuta di firmare l’implementazione della Commissione EEBC delle Nazioni Unite la quale ha sancito che Badme, causus-belli del 1998, appartiene all’Eritrea. Poi oltre il danno la beffa: ingannando l’ONU ha promosso due sanzioni contro l’Eritrea accusata di finanziare i terroristi somali di Al-Shabaab. Accuse rivelatesi, successivamente, infondate. L’Eritrea, infatti, è l’unico Stato laico in tutta l’Africa che da sempre lotta contro ogni fanatismo di tipo etnico-religioso. Ovviamente le ingiuste sanzioni delle Nazioni Unite hanno ingessato l’economia eritrea già povera di per sé perché reduce da 40 anni di guerra che ha distrutto tutte le sue infrastrutture e le fabbriche italiane del periodo coloniale.
    A quelli che dicono: “Scriviamo dell’Eritrea perché è il paese che esporta più immigrati” noi rispondiamo che non vogliamo certo negare che l’Eritrea è ancora un paese povero ed è comprensibile che i suoi giovani cerchino di migliorare la propria vita e quella delle loro famiglie. Altro motivo usato e abusato è quello del prolungamento del servizio militare. Ricordiamo che prima dell’ultima guerra questo era di 18 mesi ed ora torna ad essere come da standard internazionali ma lo stesso gli eritrei continuano a migrare come fanno altri africani provenienti da paesi “normali”. Sappiamo anche che ad attraversare il mare non sono solo eritrei. Siamo in grado di riconoscere la nostra gente e vi diciamo che oramai tutti gli africani che vengono via mare hanno capito che dichiarandosi eritrei ricevono lo status di rifugiato a prima facie. Se l’UNHCR vuol far credere che in Eritrea non vi siano rimasti più giovani “perché ogni giorno fuggono a migliaia” noi rispondiamo che, fortunatamente, ci sono ancora milioni di giovani che resistono alle avversità e partecipano alla ricostruzione del Paese. È stato così anche durante la guerra di Liberazione: non erano pochi quelli che alla prima difficoltà abbandonavano le trincee ma è stato proprio grazie a quelli che resistevano che è nata una nazione chiamata Eritrea.
    Quando in nome della libertà di stampa si fa diffamazione e si uccide una Nazione, la sua Comunità all’estero esprime il suo sdegno ed è chiamata a difendere il suo onore e la sua terra. Proprio per questo abbiamo chiesto un incontro a giornali e giornalisti per cercare di capire su quali fonti si basino i loro articoli ma finora non abbiamo avuto nessun riscontro. Giornali come il Manifesto, la Repubblica, il Corriere della Sera, l’Avvenire ed altri continuano arrogantemente a infierire e a girare il coltello nella piaga. Il rifiuto di un sereno dibattito ci ha fatto pensare ad una sorta di xenofobia nei nostri confronti ma ci auguriamo di sbagliarci perché questo tipo di discriminazione sarebbe così grave che andrebbe perseguita per legge. Se fossimo degli integralisti, per colpa dei giornali italiani, saremmo portati a odiare le vostre istituzioni ma noi siamo una Comunità storica, seria ed esemplare, amiamo il Paese che ci ospita da più di quarant’anni e rispettiamo le sue leggi ed istituzioni, siamo onesti lavoratori e nel nostro piccolo contribuiamo orgogliosamente al welfare italiano. Molti di noi hanno acquisito la cittadinanza, siamo una Comunità molto bene integrata nella società italiana con numerosi matrimoni misti e figli italo-eritrei.
    Con questa lettera vogliamo chiedere aiuto all’Ordine dei Giornalisti Italiani per fermare questa guerra mediatica che ci sta uccidendo giorno dopo giorno sfruttando le nostre tragedie e rifiutando di dar voce al nostro grido di dolore. Lo stesso, senza arrenderci mai, continueremo a difenderci commentando, dove ci è permesso farlo, tutti gli articoli infamanti dei giornalisti che, andando contro la loro deontologia, scrivono “per sentito dire” e non ci stancheremo mai di invitarli in Eritrea affinché vedano con i propri occhi le menzogne che essi stessi hanno raccontato. Secondo l’indice di Reporters sans frontières sulla libertà di stampa l’Eritrea risulta essere l’ultima della graduatoria mentre l’Italia è al 73° posto su 180. Siamo, perciò, fermamente convinti che il giornalismo italiano possa insegnarci qualcosa, possibilmente, non censurandoci più.
    Purtroppo nessun giornale italiano ha mai pubblicato finora le cose belle che l’Eritrea costruisce, eppure il nostro non è il Paese più malvagio del mondo, non ci stancheremo mai di ripeterlo.
    L’Eritrea, grazie alla sua filosofia dell’autosufficienza, è l’unico paese africano a non ricevere “aiuti umanitari” occidentali e lo stesso sta per raggiungere tutti gli Otto Obiettivi del Millennio con le sue proprie sole forze e senza indebitarsi con gli usurai internazionali. L’Eritrea è il Paese che ha ridotto la mortalità infantile e materna, che ha debellato la malaria e controllato l’Hiv, è il Paese che offre ai suoi studenti l’istruzione gratuita dall’asilo al College Universitario e che sta lavorando per raggiungere l’ultimo e più impegnativo dei suoi obiettivi: la sicurezza alimentare. A questo scopo sta costruendo numerose dighe, consapevole che senza acqua non c’è agricoltura, senza acqua non c’è cibo, senza acqua non c’è vita. Tutte le dighe già ultimate trattengono l’acqua cambiando colore al territorio circostante, evidenze che non possono essere negate da nessun giornalista per quanto cieco voglia essere!
    È proprio questo Paese “peggio della Corea del Nord”, “prigione a cielo aperto”, “inferno sulla Terra” che mette a dimora i suoi futuri alberi e costruisce dighe per la sopravvivenza e la salute di coloro che verranno dopo di noi costringendo ai “lavori forzati” la sua popolazione più giovane con il coinvolgimento anche degli studenti (come è avvenuto nel 2014 con la messa a dimora di ben 4.000.000 di alberi per fermare l’avanzamento del deserto).
    Questo è il Paese guidato da Isaias Afewerki, per i giornalisti “il dittatore più feroce del mondo”, che invece di farsi il bagno nello champagne fumando grossi sigari passa il suo tempo camminando tra polvere e fango, come un geometra in cantiere, ad incoraggiare la rapida costruzione dell’ultima diga prima dell’arrivo della nuova stagione delle piogge. I dittatori amano costruirsi bunker antiatomici non certo dighe!
    Un leader che lavora così duramente per garantire al suo popolo l’acqua e il cibo può costringerlo poi a scappare via? Qual è la verità? È qui che diventa fondamentale per il giornalista avere l’onestà intellettuale e una buona dose di coraggio per indagare sui veri motivi del traffico di esseri umani.
    Ci rendiamo conto che la nostra parola conta di meno rispetto a quella degli occidentali e allo stesso modo quando l’Eritrea accusa la CIA di traffico di esseri umani l’America risponde che è tutta colpa del dittatore.
    In un’intervista del 2008, rilasciata ai giornalisti di Reuters, il Presidente Isaias Afewerki accusava proprio la CIA di essere dietro a questo traffico. Esattamente un anno dopo, il Presidente Obama in un discorso al Clinton Foundation Initiative, confermava: “Recentemente abbiamo rinnovato le sanzioni su alcuni dei paesi più tirannici tra cui Corea del Nord e Eritrea, abbiamo partnership con i gruppi che aiutano le donne e i bambini a scappare dalle mani dei loro aguzzini, stiamo aiutando altri paesi ad intensificare i loro sforzi e vediamo dei risultati…”
    Gli sforzi degli altri paesi, di cui parlava Obama, sono i campi profughi allestiti in Etiopia e Sudan a ridosso del confine con l’Eritrea per richiamare i nostri giovani, mentre chi aiuta donne e bambini a scappare sono le ONG gestite da cittadini eritrei (come auspicato dall’Ambasciatore ad Asmara Ronald K. McMullen in un dispaccio confidenziale intitolato “Engaging the Eritrean diaspora” rivelato da WikiLeaks in cui suggeriva alle ONG che attingono a fondi USA di incoraggiare la diaspora eritrea alla critica del Governo eritreo). Non era mai successo, infatti, che così tanti eritrei potessero gestire delle ONG e in poco tempo sono nate l’Agenzia Habeshia di don Mussie Zerai, Gandhi di Alganesh Fesaha, HRCE di Elsa Churum. Contemporaneamente sono spuntati numerosi siti web di gruppi di “opposizione” al governo eritreo usati come megafoni per diffondere meglio le notizie di ciò che presto sarebbe successo ai giovani eritrei (ne è un esempio Radio Erena di Meron Estifanos).
    Approfondendo la ricerca si scoprirebbe facilmente che dietro a tutte queste “Sante” organizzazioni ci siano i soldi di National Endowment for Democracy (NED), di Freedom House, di Open Society Institute, del Dipartimento di Stato Americano ed il sostegno del governo etiopico.
    Ma qual è il principale fattore di attrazione per i giovani? Sembrerebbe che dietro a tutta questa faccenda ci sia la promessa di una vita nel paradiso terrestre: il visto facile per gli Stati Uniti. Con il trucco di un visto per l’America, i ragazzi vengono fatti fuggire dall’Eritrea verso i campi profughi dell’UNHCR in Etiopia e in Sudan dove Alganesh Fesaha ed Elsa Churum distribuiscono il numero di telefono satellitare di Meron Estifanos e di Mussie Zerai e i poveri profughi non vengono fatti salire su un aereo umanitario ma fatti partire verso il deserto ad affrontare torture, sequestri nel Sinai e prigioni in Libia. Assegnandosi i compiti lungo il percorso verso il mare, le ONG entrano in azione attraverso drammatici collegamenti telefonici con i ragazzi sequestrati apposta dai beduini per ricattare la diaspora eritrea nel mondo che, terrorizzata dalle telefonate dei propri familiari, paga migliaia di dollari. Per quelli che infine riescono a salire sui barconi fatiscenti ecco pronti gli angeli custodi, armati di telefoni satellitari, che allertano i soccorsi per i natanti.
    Intanto arrivano a Lampedusa sempre più minorenni (12-13 anni) non accompagnati, senza alcuna convinzione politica e ai quali viene concesso lo status di rifugiato. A meno che non si voglia far credere che in Eritrea si mangino i bambini perché considerare dei minorenni rifugiati politici?
    Il regime-change attuato attraverso lo svuotamento dell’Eritrea dai suoi ragazzi si è trasformato negli anni in un genocidio sistematico di giovani vite di africani perché la verità è che tra Eritrea ed Etiopia la guerra non è mai finita.
    Egr. Dott. Iacopino, la Comunità degli Eritrei in Italia si augura che l’Ordine dei Giornalisti Italiani non si schieri a favore di una delle due parti in conflitto ma che sia neutrale ed equilibrato. Da parte nostra ci sarà il massimo impegno e collaborazione con tutte le istituzioni italiane e ribadiamo la nostra ferma volontà di arrestare il traffico di esseri umani che ci ha visti vittime e protagonisti in prima persona. Ancora chiediamo a Lei e alla Sua rispettabile istituzione democratica un impegno a dar voce al nostro dolore per fermare questo genocidio che quotidianamente si compie nel Mar Mediterraneo.

    Comitato Media Italia
    Portavoce della Comunità Eritrei residenti in Italia

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