Iniziando la lettura si viene da subito catapultati nella piazza di un’Acitrezza che fu e ci si ritrova a gustare la granita di don Turi. Don Turi “faceva granite da cinquant’anni e ogni mattina i pescatori erano capaci di mangiarsi una vastella intera con un bicchiere di granita inzuppando pezzi di pane grande quanto una mano nel fresco dolce del bicchiere un po’ appannato.”
Inizia così il libro di Maribella Piana, “I ragazzi della piazza” edito da Bompiani, con un incipit descrittivo assolutamente emozionale che tocca tutti i sensi: ci sono gli odori, i sapori, ci sono i ricordi, le tradizioni, e così continua per il resto del testo.
Una lettura che scorre piacevolmente e uno stile narrativo che ora è descrittivo, ora introspettivo, ora poetico, a tratti anche ironico e spassoso. La protagonista, narratore interno della storia, accompagna il lettore per mano fino alla fine del testo con una chiusa circolare in cui la spensieratezza delle prime pagine lascia il passo all’introspettiva malinconia.
La sicilianità della descrizione geografica viene sostanziata da un uso sapiente del lessico che rievoca terminologie dialettali ormai in disuso o tutt’oggi adoperate in espressioni colorite, termini da dire e –nell’esilarante approccio a certi tabù sessuali- assolutamente da non dire, previo l’uso della formula “con licenza parlando”.
E chi conosce già Acitrezza, avrà modo di ritrovarsi nel testo, passo dopo passo, parola dopo parola, chi, invece, non c’è mai stato è come se ci andasse in un iter immaginario, perché l’autrice non dimentica proprio nulla. Ci sono gli scogli, le piazze, le strade, c’è “iddu”, quel pronome con valore quasi apotropaico per attenuare, almeno linguisticamente, la pericolosità dell’Etna, ci sono le cassine delle case dei pescatori e gli infissi in alluminio anodizzato delle nuove costruzioni, ci sono le varchiate all’isola e i tuffi dai Faraglioni, c’è l’acqua e zammù, le filastrocche delle vecchiette; e poi, in uno scenario quasi verghiano, ci sono loro: i pescatori, coi pantaloni arrotolati, il cappello in testa, i piedi scalzi e la pelle scura e dura come il cuoio. Infine, a fare da contraltare, in una posizione quasi ossimorica, che è sentore di cambiamento, ci sono i villeggianti, figli di un altro status, di un’altra mentalità, che acuita dal trapasso generazionale, il testo non tralascia di sottolineare.
Dalla stagione scolastica delle prime feste in casa, con tanto di panini al salame e Fanta, dai balli lenti e dai primi indimenticabili approcci con l’altro sesso, si passa all’università, e gli anni Settanta arrivano in fretta e con loro le lotte studentesche, gli scontri con la polizia, l’avvicinarsi delle classi sociali di borghesi ed operai, il lasciare i sobri abiti sartoriali per gonne lunghe, eskimi e zoccoli. Ci sono le canzoni di Bennato, il concerto di Woodstock, il musical Hair, il sesso maldestro, le bocciature collettive e la denuncia a tutti i costi, ma c’è anche tanta confusione nell’andare avanti senza sapere come, “la situazione intorno a noi –dice il testo- cambiava rapidamente e spesso non eravamo in grado di decifrarla, distratti, come eravamo, dalla fretta di crescere”.
Una storia di vite, dunque, di ragazzi, che crescono attaccati ai ricordi della più spensierata giovinezza, rievocata, quasi proustianamente, dalle immagini e dai profumi della solita piazza, dove, a un tratto, è chiaro cosa fissino i pescatori “con gli occhi allucinati dal sole”, sono i ciottoli “sballottati dalle onde”, quei ciottoli che vengono tirati nella speranza che vadano lontano, ma che, sempre, dopo qualche rimbalzo, “inevitabilmente affondano.”
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