C’è una scena nell’atto unico “Notte a Catania” di Domenico Trischitta – sabato e domenica scorsi al Teatro Piscator di Catania per la regia di Francesco Di Vincenzo – che commuove per la sua “poetica almodovariana”: quella del ricordo dei funerali di Fimminedda, il puppo catanese adorato dai travestiti del quartiere San Berillo. L’attore Orazio Mannino rende bene quel carosello di umanità, amore e scherno, che è stato il funerale di Fimminedda. Mannino è bravo perché misurato nel suo porgere con ironia e disincanto il sogno del protagonista che, come Carver e Fante, prima di scriverla, la vita vuole viverla.
Per questo decide di accettare il lavoro del portiere di notte, quell’osservatorio sarà una vena aurifera per il suo catalogo di “dispensatore di emozioni” (“Questo nome non mi è nuovo”, avrebbe commentato Totò). Giulia, la compagna del protagonista, interpretata con personalità da Tiziana Bellassai, è la “corda seria” della “Notte” di Trischitta, lo specchio razionale sul quale non può e non vuole specchiarsi un talentuoso Peter Pan. La scena è essenziale: un banco, per l’accettazione dei clienti del piccolo albergo del centro storico etneo, e un divano-brandina da utilizzare per le micro porzioni di sonno, uno stato eccitante di dormiveglia per via della paura di farsi beccare da Hannibal, il direttore cerbero dell’albergo. Un discorso a parte meritano le musiche suonate alle tastiere da Alberto Alibrandi. Chi ha letto Una Raggiante Catania sa che Trischitta intinge la penna nel repertorio musicale che è il canzoniere della nostra vita. I brani musicali che fanno capolino qua e là nell’atto unico sono, quindi, molto di più di un semplice commento sonoro: sono struggenti rimembranze di tempi trascorsi. Se, com’è accaduto con Trischitta, la notte che è passata produce pezzi di così buona letteratura e scrittura teatrale, non vedo l’ora che torni a far buio.
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