Il travestitismo femminile per sopravvivenza è una costante nella storia siciliana per l’affrancamento della donna. In letteratura (“Correva l’anno 1698…” di Maria Attanasio), come nel cinema (“Viola di mare”) la liberazione passa attraverso un calvario che ha sempre caratterizzato il clichè sessista isolano o sudista. Rendere questo dramma leggero, poetico, epico allo stesso tempo non è pregio da poco. Lo stesso pregio che avevamo avvertito leggendo le pagine del contadino Rabito, racconto da cantastorie che, attraverso un secolo di storia, segna le tappe del passaggio dal mondo rurale a quello industrializzato. Attraverso gli occhi di una donna il tono diventa scanzonato, lirico. “Il conto delle lune”, adattamento teatrale del romanzo omonimo di Marina Doria, curato da Egle Doria, si dipana per toni fiabeschi, leggeri, nonostante il prologo importante che è una sorta di manifesto della condizione femminile siciliana del tempo. La miniera di zolfo, luogo di metafora e di dolore, è il crudele ricettacolo dove si consuma una tragedia esistenziale: carusi che diventano uomini in fretta per non subire le violenze degli adulti e fimmini che si travestono da masculi per sopravvivere. Mimì va oltre, si trasforma, scappa e varcherà l’oceano per raggiungere l’America come se fosse un uomo, il compimento di una rivoluzione sessuale portata avanti fino alle estreme conseguenze. In questo sviluppo drammaturgico, diretto bene da Camillo Mascolino, si muove con disinvoltura Egle Doria, ora ingenua, ora volitiva, a cesellare un’autentica e sentita perfomance teatrale. A contraltare il poliedrico Emanuele Puglia, con la sua carrellata di maschi siciliani, gli uomini e ominicchi di sciasciana memoria. Allestimento scenico di Federica Buscemi, costumi delle sorelle Rinaldi.
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