Era destinato a diventare il nuovo James Dean. Giovane, bello e dannato. Con il volto spigoloso e l’aria da duro, i capelli disegnati dal gel e un sorriso che si apriva come un sole a sorpresa, dietro lo sguardo tagliente e tenebroso.
Lo aveva scelto per questo Francis Ford Coppola, nel 1983, lanciandolo nel mondo del cinema con I ragazzi della 56a strada e Rusty il selvaggio al fianco di attori come Mickey Rourke, Nicolas Cage e Dennis Hopper. Ed è proprio a sua maestà Coppola, “una divinità con cui tutti sognavano di lavorare”, che Matt Dillon deve l’inizio della sua carriera. Lo racconta al Taormina Film Festival, dove è tornato per la terza volta, per festeggiare i sessant’anni di una manifestazione cui è molto affezionato, tanto da sottolineare – visto l’aggravarsi delle difficoltà che da qualche edizione a questa parte mettono a rischio la programmazione – che “l’Italia ha bisogno di un festival così importante anche al Sud”.
Di fronte ad una platea animata soprattutto da giovani studenti di Cinema, con i suoi cinquant’anni appena compiuti l’attore americano si è raccontato con leggerezza e disponibilità, ripercorrendo la sua carriera iniziata quando era poco più che un ragazzo e maturata nel tempo con diverse esperienze cinematografiche che, abbandonato il ruolo dell’adolescente problematico, lo hanno fatto confrontare anche con la commedia – da Tutti pazzi per Mary e In & Out a Tu, io e Dupree – e con drammi esistenziali come il bellissimo Crash per il quale ha quasi sfiorato l’Oscar, fino a quello che è considerato forse il suo ruolo migliore, ovvero l’alter ego di Charles Bukowski in Factotum di Bent Hamer.
Eppure, Matt Dillon non sognava di fare l’attore. Almeno non per stare sotto i riflettori. “Ciò che volevo era girare lo specchio verso lo spettatore e mostrargli il riflesso della vita. Per me la cosa più importante è che il pubblico possa ritrovarsi almeno in parte nella storia e nei personaggi che racconto. Ecco perché cerco sempre ruoli che mi catturino come interprete e come spettatore e che mi permettano di portare sullo schermo almeno una parte di verità”.
Verità, verosimiglianza. Sinonimi che si ripetono spesso nel suo discorso, al centro del quale torna continuamente a mettere le persone, la gente. “Sono le persone a fare le storie e non viceversa. E io amo i film che parlano della condizione umana. In questo il cinema italiano era maestro, penso ai Vitelloni di Fellini ma anche alla Grande Bellezza di Sorrentino. Il cinema americano, invece, oggi tende soprattutto all’intrattenimento fine a se stesso, perdendo quasi il contatto con la realtà del mondo che cambia continuamente. In questo, la televisione sta di gran lunga superando il cinema”.
Una constatazione che Matt Dillon fa quasi a malincuore, senza quell’entusiasmo che di questi tempi dilaga tra gli amanti delle serie tv. E ciò sebbene anche lui stia per girarne una “breve”, Wayward Pines, diretto da M. Night Shyamalan sulla scia di Twin Peaks.
Tutta la sua attenzione, comunque, al momento sembra più concentrata su un nuovo progetto da regista, il secondo dopo l’esordio dietro la macchina da presa nel 2002 con City of Ghosts. Si tratta di un documentario sulla musica afrocubana e, dato che ancora una volta ad attrarlo sono le storie di persone, racconterà il talento di un cantante cubano scoperto a Città del Messico dieci anni fa, “che suona come fossimo alla fine degli anni Quaranta sotto una forte influenza del jazz americano. Non sono un esperto conoscitore di musica, ma adoro il jazz. E credo che la vita di una persona sia sempre una sceneggiatura perfetta. Per questo spero di finire questo film, perché il documentario ti permette di conoscere fino in fondo un uomo”.
Quanto al suo mestiere di attore, a chi chiede un consiglio per iniziare il percorso, Matt Dillon risponde senza esitazione: “siate soprattutto creativi, non fermatevi solo alla recitazione ma esplorate anche gli altri linguaggi. Scrivete se volete recitare, recitate se volete dirigere. Questo vi permetterà di avvicinarvi il più possibile alla verità. Per essere autentico, un attore deve costruirsi la storia del personaggio oltre ciò che viene raccontato nel film. Non importa che sia il protagonista ad evolversi, scoprendo qualcosa di se stesso che non conosceva. Sono l’attore e il pubblico a dovere scoprire qualcosa sul personaggio che neanche il personaggio conosce”.
Alla fine dell’incontro, Matt Dillon ha conquistato tutti. Con la sua maglietta nera di cotone, giacca scura e pantaloni avana, si attarda fino all’ultimo istante disponibile per firmare autografi e sorridere ai tanti flash. Selfie e non.
Scrivi un Commento