Chi ci viene incontro per sfidare il nostro sguardo? Chi vomita il suo destino fino alla linea estrema, all’orizzonte dello spazio (non solo) scenico? “Odisseo: il naufragio dell’accoglienza” di Roberto Zappalà – quarta tappa del progetto di ri-mappatura del mito e dei miti della Sicilia e del Mediterraneo – si snoda come una superba dichiarazione di poetica, quasi il “manifesto” finale della ricerca sulla metafora del corpo e del corpo come metafora che il coreografo catanese ha intrapreso ormai da dieci anni.
L’evento fondante del viaggio come allegoria dell’esistenza, che aggruma in Odisseo la sua figura per eccellenza, si coagula per Zappalà anche nella celebre immagine di Lucrezio del “naufragio con spettatore” e nella sua rilettura contemporanea di Blumemberg in funzione di una approfondita e personale riflessione sull’”emergenza migranti”.
In questa vertiginosa trasfigurazione, sorretta dal vigorosissimo lavoro drammaturgico di Nello Calabrò, il chiasmo viaggio/danza/spostamento/movimento si definisce all’interno di uno spettacolo delle possibilità, meta-testuale in cui ogni sequenza è una sorta di “verifica incerta” (per usare e citare un certo linguaggio cinematografico), che determina e racchiude nella Storia quelle molteplici dei suoi protagonisti.
Il viaggio che Roberto Zappalà danza, tradisce il suo stesso concetto: non vi è dato ritorno poiché procede caoticamente ad inferos: il mare è morte per acqua e il piccolo cimitero di croci che sovrasta la scena è il suo incessante memento. Ma il viaggio è anche dunamis, atto che scrive la storia: ce lo ricordano la voce fuori campo di Battiato che legge Plutarco e i gorghi dei corpi che attraversano e disegnano lo spazio performativo di Scenario Pubblico su una tessitura musicale che varia da Mahler a Cole Porter, da Satie a Rossini, da Mozart al nostro Puccio Castrogiovanni.
I danzatori sono tutti ulissidi: la loro è traversata nell’umido che sbriciola le ossa quando si accalcano all’angolo, ma anche l’abbraccio liberatorio dell’approdo.
Il mare culla la morte, è delirio di corpi, anzi di non-corpi, carne tra i flutti: mare della necessità, acqua disperata. E il viaggio diventa un labirinto di onde, il lezzo di salsedine degli affogati, i fari delle motovedette che scavano il nero liquido: mare dell’inesorabilità, riva di chi non comprende il senso di quelle onde. Naufragio della coscienza insomma, lì dove “l’accoglienza del naufrago, dunque dell’idea del naufragio, si rovescia nel naufragio dell’accoglienza”. Cogliamo nel groviglio di quei corpi gli “strani frutti” della nostra avidità, mascherata dalla retorica della sicurezza, della anonima gestione di una umanità “altra”, senza identità. E il contrappunto blasfemo del boogie-woogie non serve solo a rammentare i tempi in cui c’eravamo noi sui barconi – noi quelli sporchi, noi quelli cattivi – ma anche a sottolineare la nostra indifferenza a questa contemporanea sete di vita.
Mare di memorie naufragate dunque, di esistenze diventate flutto, alga, fondale e i corpi – quei corpi – oscillano nello spazio nudo, avvolgendosi in spirali, contorcendosi e dimenandosi, urlando nella sequenza finale. In uno spettacolo dove l’azione è puro pensiero, dall’intensità quasi insostenibile, la Compagnia Zappalà non offre il fianco a nessuna enfasi. E la musica su cui batte distonicamente il rumore delle acque restituisce senza sosta il “sentimento d’ignoto” di fronte al sorgere di un mondo nuovo di cui parlava Hegel, un mondo che la voce della soprano Marianna Cappellani percorre paradossalmente sulle arie barocche di Dowland.
Estraendo da questa forma altissima di teatro-danza una paradigmatica e fluida “asciuttezza”, l’Odisseo di Roberto Zappalà ci ricorda, alla fine, tra le grida altissime di questa macabra ciurma, che forse quell’onda terribile e mortale adesso siamo noi stessi.
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