CATANIA. L’unica cosa che non mettiamo assolutamente in dubbio è la bravura di Ottavia Piccolo e di Vittorio Viviani: l’esuberante vis dell’una e la straordinaria versatilità dell’altro.
Sui legni del Verga i due hanno dato vita ad una atipica sarabanda teatrale, non sempre omogenea, non sempre brillante, restituendo ora in forma di vaudeville, ora in forma di monologo, ora in forma di “kabarett” tutto espressionista, quasi brechtiano (ve la ricordate la “Lode del dubbio”?) ora in guisa d’avanspettacolo all’italiana, proprio “L’arte del dubbio” di Gianrico Carofiglio, nella versione teatrale di Stefano Massini con la regia di Stefano Fantoni.
Sui legni del Verga il dubbio è una virtù che si fa arte, anzi legge: un decalogo addirittura, lungo il quale si scandiscono, appunto, le dieci sequenze dello spettacolo con la voce fuoricampo di Gioele Dix (nei panni dell’angelo tentatore). Il dubbio è necessario ed impermeabile, la verità rivelata è relativa (wow, si strizza l’occhio pure a Bartezzaghi…). Dunque: siparietto con fisarmonica – complici le note di Cesare Picco eseguite dal vivo da un effervescente Nicola Arata – un leggero accenno di meta-teatro, il gusto per il fumettistico e una fragranza gradevole da cartoon non sempre sono bastati a convincerci del tutto (ah, il dubbio, che mala bestia!) sull’impianto complessivo dello spettacolo, anzi della riscrittura. Ci pare insomma che qualcosa, nella foga dell’accumulo, giri a vuoto.
Che verbali (autentici!), citazioni processuali & C. ingombrino troppo la scena e che una sfoltita forse avrebbe giovato alla resa drammaturgica, nulla togliendo al Queneau di “Esercizi di stile” e di tutta la discendenza letteraria-filosofica (sul dubbio) che fa bella mostra di sè.
Ragionevole dubbio (tanto per citare – storpiandolo – anche un romanzo di Carofiglio) considerata pure una pagina illuminante del Nostro – dichiarazione limpidissima di poetica – sulla “manomissione della parola”. Insomma la parola rovesciata sulla scena doveva mantenere quell’aura che emana proprio da quelle pagine tra “alterazione”, “ricostruzione” ed “emancipazione”. Invero alcuni guizzi cabarettistici di grande impatto (“Quello di destra” e “Quella di sinistra” su tutti) non riescono però a mantenere l’equilibrio con due “mozioni del cuore”, giocate ora con le carte della Camorra (o del suo stereotipo? Il dubbio è legittimo?) per l’assassinio di don Peppino Diana, ora “sulle parole che uccidono”, quelle dei dirigenti della Tyssen Group (oh, certo, lo spettacolo di Pippo Delbono era altra cosa…) dopo il disastro che costò la vita a sette operai “distratti” e che, comunque l’afflato di Ottavia Piccolo rende con assoluta, tragica aderenza. Uno spettacolo ondivago e sinuoso perchè quest’arte del dubbio pare a volte ritorcersi su se stessa. Per approdare comunque, in fondo, a quella verità che è il teatro stesso.
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