I visionari in questo paese non hanno scampo. Pier Paolo Pasolini muore all’Idroscalo di Ostia come Cristo, sfigurato come una sirena non riconosciuta dai pescatori. Egli ha avuto il coraggio di dire la verità, di prevedere e interpretare i fatti funesti dell’Italia dei segreti.
Ed era soprattutto un poeta: “Abbiamo perso prima di tutto un poeta, e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre quattro in un secolo; quando sarà finito questo secolo Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe essere sacro…” queste le parole di Moravia al funerale. Un intellettuale come lui è un’eredità preziosa che solo pochi hanno voglia di cogliere. E sulle note di “La mia vita galleggia su un petalo di giglio” di Marcello Murru, il più ciampiano tra i cantautori italiani, si materializza un miracolo teatrale, quello di Giuseppe Carbone e Nicola Costa. Con rispetto e poesia allestiscono un manifesto pasoliniano, drammaturgicamente equilibrato e convincente, senza cadere nella facile retorica di restituirci lo scrittore di Casarsa in maniera superficiale, come è avvenuto spesso nel cinema. Carbone e Costa riescono nell’impresa di farci commuovere attraverso alcune pagine, tra le più significative di Pasolini. Ad affiancarli sulla scena Gabriele La Spada Caminito, Eleonora Li Puma, Edoardo Monteforte, Alice Sgroi e Viviana Toscano. Un lavoro che meriterebbe di essere ripreso, rivolto soprattutto alle nuove generazioni che hanno perso la coscienza civile.
Condivido in pieno il giudizio di Moravia. Pasolini resterà un poeta nei secoli futuri.