Come mai in un’epoca caratterizzata dalla proliferazione dei mezzi di comunicazione, la reciproca comprensione è quanto mai difficile? Perché l’uomo si ostina a credere che il presente si riduca alla novità e che la novità si identifichi con la verità? E ancora, perché accade che le parole di Lucrezio sull’universo, di Cicerone sulla politica, di Seneca sull’uomo colpiscono la mente e curano l’anima più e meglio dei trattati specialistici?
Il prof. Ivano Dionigi, illustre latinista, già rettore dell’Università di Bologna, prova a rispondere a tali domande volgendo lo sguardo alla lingua che l’Europa ha parlato ininterrottamente per secoli, attraverso la politica, la religione, la scienza, nel suo volume dal titolo “Il presente non basta – La lezione del latino” (Mondadori, 2016), che verrà presentato all’Università di Catania venerdì 24 marzo, alle 10, nell’aula A1 del Monastero dei Benedettini, sede del dipartimento di Scienze umanistiche.
Dopo i saluti del direttore del dipartimento di Scienze umanistiche Marina Paino, con l’autore si confronteranno i docenti Rosa Maria D’Angelo, ordinario di Lingua e Letteratura latina nel dipartimento, e Giacomo Pignataro, ordinario di Scienza delle Finanze nel dipartimento di Economia e Impresa.
Il latino – ricorda Dionigi – evoca un lascito non solo storico, cultuale e linguistico ma anche simbolico: si scrive «latino», ma si legge «italiano, storia, filosofia, sapere scientifico e umanistico, tradizione e ricchezza culturale». Non è un reperto archeologico, uno status symbol o un mestiere per sopravvissuti; è il tramite che – oltre Roma – ci collega a Gerusalemme e ad Atene, l’eredità che ci possiamo spartire, la memoria che ci allunga la vita. È un’antenna che ci aiuta a captare tre dimensioni ed esperienze fondamentali: il primato della parola, la centralità del tempo, la nobiltà della politica.
Come mater certa, anzi certissima dell’italiano – sostiene l’autore -, il latino – lingua morta eppure resistente nell’uso comune, dal lessico economico a quello politico, medico e mediatico – ci restituisce il volto autentico delle parole, responsabilizza il nostro parlare, consente quell’«ecologia linguistica» che fa bene anche all’anima; come lingua della temporalità, ci costringe a confrontare tradizione e innovazione,
ci libera dall’assedio del presente e ci rende immuni dal «provincialismo di tempo»; come lingua della res publica, della politica quale «cosa di tutti», ci ricorda che l’uso più alto della virtus risiede nel «governo della città» e che il pronome più naturale e più bello è «noi» e non «io».
Questa riflessione è tanto attuale quanto urgente di fronte alle nuove sfide delle scienze e alla pervasività delle tecnologie digitali, che possono e debbono trovare negli studia humanitatis un’alleanza naturale e necessaria. Un compito da consegnare in primo luogo alla scuola: palestra dei fondamentali del sapere e crocevia del futuro.
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