La sesta edizione dell’Ortigia Film Festival di Siracusa si pregia della presenza del grande regista israeliano Amos Gitai. Architetto, regista, sceneggiatore, Gitai ha cominciato per caso filmando con la super-8 durante la guerra del Kippur, nelle missioni in elicottero, come riservista dell’esercito israeliano. Da quel momento ha continuato a documentare con occhio critico e profondità di analisi la società israeliana, lo sviluppo dello stato di Israele, e le possibilità di convivenza tra i popoli ebraico e palestinese. Per la sua opera cinematografica ha ricevuto per un lungo periodo una forte censura in Israele e riconoscimenti illustri in tutto il mondo (dal premio al Festival di Cannes per il film Free Zone del 2005, alle numerose partecipazioni al Festival di Venezia, al British Independent Film Award per il miglior film straniero in lingua straniera) di cui ricordiamo qui tra i tanti Golem, Kadosh, Kippur, Terra Promessa, Verso Oriente – Kedma.
Presente in Sicilia vent’anni fa, con uno spettacolo a Gibellina, con Enrico Lo Verso, è per la prima volta a Siracusa. A lui è stato dedicato il Focus dell’Ortigia Film Festival di quest’anno con tre suoi film (Free Zone, Ana Arabia e Lullaby to my father). Ma durante il Festival Gitai si è prestato anche generosamente per una Master Class su cinema e architettura, aperta al pubblico, ed è stato partecipe di un dibattito con il grande attore e regista Pippo Delbono, anche quest’ultimo impegnato per la pace e la convivenza tra i popoli.
Gitai, pur vivendo da anni tra la Francia ed Israele, resta saldamente legato alle sue origini israeliane. “L’architetto deve avere una visione della città, come il cineasta, il regista, osserva tutto con un suo particolare modo di intendere le cose” dice Gitai “per questo non credo al cinema- verità: perché il cinema è sempre un atto soggettivo, che implica una specifica opinione sulle cose”.
Qual è allora il futuro del cinema? È più nel film o nel documentario? E quest’ultimo è più libero dalle logiche commerciali?
“Entrambi sono importanti, credo, sono due modi diversi di raccontare. Ma l’autonomia dal sistema del marketing cinematografico è come la libertà, non ti è già data, te la devi conquistare, con un atto di coraggio”
“Che impressione ha di questo festival che da visibilità ai giovani film-maker italiani? E cosa direbbe ai giovani registi?”
“E’ la prima volta che mi trovo a Siracusa. Ed è molto bella. La gente è gentile, lo staff del Festival è davvero ospitale. Ai giovani registi italiani ma anche israeliani dico che bisogna fare delle scelte, avere coraggio e raccontare il proprio paese. Ma tutto parte dalla scelta. Non bisogna fare qualsiasi cosa. Oggi molti cercano il successo subito, facile, quello di ‘cassetta’. Ma io come regista mi sento anche un cittadino, sto agendo anche come cittadino israeliano. Inoltre il cinema ha bisogno di essere reinventato continuamente. Dunque direi ai giovani di cercare il proprio linguaggio, di non imitare ciò che è convenzionale.”
“Preferisce dunque una posizione ‘marginale’ rispetto al cinema commerciale?
“Pasolini non era marginale. Era uno che voleva proporre il proprio modo di vedere il mondo e raccontarlo. Aveva scelto un suo linguaggio. E ora per vedere un film di Pasolini noi facciamo degli eventi speciali. Scegliere di non accettare le regole commerciali, di non starci perfettamente dentro, significa anche agire la propria libertà di artista”
“Nei suoi film le donne hanno un posto speciale. Hanno un ruolo particolare anche nella società israeliana?”
“Si, penso di sì, e potrebbero averlo anche nel conflitto. Anche le donne siciliane sono molto forti.”
“Cosa pensa della attuale situazione a Gaza, del conflitto tra Israele e i Palestinesi?”
“Stanno avvenendo in questo momento diversi conflitti nel mondo (penso alla Siria, penso al genocidio dei kurdi in Turchia – dove ora si brucia la bandiera israeliana, ma si sono dimenticati cosa hanno fatto loro) ma l’attenzione è tutta sul conflitto tra Israele e Palestina. Va bene, ma non sempre questo aiuta. Potrebbe anche derivare dal non aver compreso appieno il significato della fondazione dello Stato di Israele, della shoah. A volte si sente in Europa dire che ‘questa è la shoah dei Palestinesi’, ma tutto ciò non ha senso perché la Shoah è un fatto storico preciso, non si può generalizzare così. E credo che gli atteggiamenti antisemiti sono ancora molto diffusi in Europa e sono il segno del senso di colpa, che gli Europei hanno nei confronti del popolo ebraico.”
Come mai prevalgono sempre posizioni estreme? C’è uno scollamento tra società civile e governo israeliano?
“No, non c’è separazione: Israele è una democrazia. Ma per una strana serie di congiunture prevalgono gli estremismi, la ragione moderata stenta a farsi strada. Come è stato con Rabin, che era un moderato, ma l’opinione pubblica di estrema destra non lo ha appoggiato rafforzata dall’atteggiamento di Arafat. Sono due forze, quelle dei fondamentalisti islamici e quella dell’estrema destra israeliana, che si tengono per mano e non consentono che emerga un atteggiamento moderato”
“Quali sono i suoi prossimi progetti?”
“Con Carlo Hintermann e la sua casa di produzione Citrullo International stiamo lavorando a un libro in lingua yiddish, che è una lingua della memoria, ma anche dell’intimità, ma che sta scomparendo. E’ stato un atto politico girarlo in questa lingua: la lingua che accomunava gli ebrei senza patria nei diversi paesi europei. Il soggetto è ripreso da un romanzo di Aharon Applefeld “Paesaggio con bambina”. Ed è la storia di una bambina unica sopravvissuta della sua famiglia ai campi di concentramento perché fuggita nei boschi. Il film si intitolerà “Tsili”. Carlo, tra le tante cose, ha già co prodotto “The three of life” e “Terence Malik”. Abbiamo anche dei progetti sulle comunità ebraiche del sud Italia, in Puglia, ma anche la Sicilia è interessante. In Puglia ci sono piccolissime comunità molto avanzate, dove hanno fatto la prima rabbina donna”
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