“Le foto devono sempre raccontare una storia”. È questa la filosofia che attraversa tutto il lavoro di Antonio Parrinello, fotoreporter per l’agenzia Reuters. Le sue foto sono tra quelle dei collaboratori dell’agenzia britannica che si sono aggiudicate il Premio Pulitzer, la più prestigiosa onorificenza per il giornalismo. Il premio è stato conferito per gli scatti che hanno raccontato la crisi dei migranti. In un’intervista a Sicilia & donna Antonio Parrinello racconta le sensazioni e le emozioni vissute sul campo come fotografo e come uomo.
L’intervista ad Antonio Parrinello
Qual è stata la sua prima reazione appena ha appreso la notizia? Cosa si prova ad avere un riconoscimento del genere?
“Tengo a precisare che il premio Pulitzer è stato riconosciuto a tutto lo staff fotografico della Reuters che nel 2015 ha raccontato l’immigrazione attraverso le immagini. Un racconto che ha fornito, grazie al lavoro collettivo, differenti punti di vista. Non posso che dire che è stata una bella notizia. È gratificante ricevere un riconoscimento come il Pulitzer. Vedere i propri scatti pubblicati sui giornali stranieri, nei siti, dà uno stimolo in più a continuare il proprio lavoro”.
Lei, da siciliano e da fotoreporter, ha un punto di vista privilegiato. Che cambiamento c’è stato nella percezione dei fenomeni migratori da parte dell’opinione pubblica?
“Devo dire che, in parte, chi fa informazione ha una grande responsabilità. Quel che è cambiato rispetto ai primi sbarchi a Lampedusa è che lì c’era un contatto diretto con la gente del luogo, mentre adesso il cittadino non ha una percezione immediata del fenomeno perché i porti sono decentrati. Quindi se noi giornalisti non scrivessimo nulla il cittadino non ne saprebbe nulla. E purtroppo in alcuni casi le notizie vengono distorte. Una parte dell’opinione pubblica ha capito il problema: questa gente ha motivi validi per scappare dal proprio Paese, o perché rischia la vita o perché è in cerca di un’esistenza migliore. Un’altra parte di
opinione pubblica non nasconde, invece, il fastidio causato da alcune convinzioni che non hanno fondamento: c’è chi pensa che i migranti possano causare problemi, togliere il lavoro, o costituire una minaccia. L’anno scorso ho realizzato un video Buttiamoli a mare nel quale ho voluto sentire le opinioni della gente sugli sbarchi. Il titolo richiama proprio una delle risposte che mi sono state date. E questo dà la percezione della mancanza del senso di accoglienza che alcune volte si manifesta”.
Cosa vede negli occhi dei migranti quando incrocia i loro sguardi?
“Vedo cose differenti in base a chi fotografo. Molto dipende se sono bambini o adulti. La prima cosa che noto, non appena arrivano nei porti, è la sensazione di liberazione e gioia che esprimono. Un’emozione che nell’adulto convive con la tristezza per aver lasciato il proprio paese, mettendosi alle spalle i sacrifici di una vita. Invece nei bambini colgo la spensieratezza: il bambino pensa a giocare, scorda facilmente, gli basta essere accanto ai genitori. Non appena punto la macchina fotografica su di loro in tanti si fanno fotografare con il pollice alzato, in segno di vittoria. Come a voler dire: Ce l’abbiamo fatta. E immagino ci sia anche un pensiero rivolto a chi ha perso la vita durante il viaggio in mare”.
Ci sono degli aneddoti che l’hanno turbata o emozionata e che comunque le sono rimasti impressi nella mente?
“Ad Augusta, dopo un naufragio, è arrivata una nave con a bordo i primi migranti soccorsi. Mi ha colpito l’immagine di un omone che teneva una bambina in braccio. Pensavo fosse la figlia. Cercai di sentire dai soccorritori cosa fosse successo. La bambina aveva perso il contatto con i genitori mentre era in acqua e lui è stato il primo a prenderla in braccio in attesa di aiuto e non l’ha più mollata. L’omone sperava che nella seconda nave arrivata al porto poco dopo ci fossero i genitori. Ma quando ha saputo che avevano perso la vita ha avuto un crollo. Fu un episodio emblematico che tracciò un ponte ideale tra due nazionalità, lui siriano e lei etiope, unite nella tragedia”.
Esiste un confine oltre il quale la registrazione dei fatti diventa invadenza? Come si fa a riconoscerlo e sapere quando fermarsi?
“Durante gli sbarchi capita di tutto. Ci sono momenti di felicità ma anche di sofferenza. Ti trovi di fronte migranti che, provati dal viaggio, non riescono a camminare. Li ho immortalati perché mi sembrava giusto raccontare anche il dolore. C’è chi non vuole essere fotografato. In quel caso preferisco non farlo e
rispettare la loro volontà. Altri, al contrario, chiedono di essere fotografati. Per il resto sono del parere che bisogna fotografare tutto, e dare una visione completa delle storie che si vogliono raccontare. È il potere straordinario che ci offre l’immagine fotografica. L’importante è non strumentalizzare la notizia per il proprio tornaconto né per quello degli altri”.
Recentemente la sua agenzia, la Reuters, ha vietato ai suoi collaboratori l’utilizzo del fotoritocco. La cura del lato estetico delle immagini è sempre e comunque incompatibile con la veridicità delle stesse o è possibile trovare un compromesso tra i due aspetti mantenendole veritiere?
“Io parto dal presupposto che l’aspetto estetico bisogna trovarlo al momento dello scatto. Per il tipo di fotografia che faccio la composizione e l’aspetto pulito dell’immagine si deve creare nello stesso istante in cui si presenta e secondo le giuste regole
della fotografia. Può capitare di fare uno scatto un po’ sovraesposto o sottoesposto ma sono correzione consentite. Però la modifica non la condivido e la Reuters la vieta”.
Nel 2013 aveva già ottenuto un riconoscimento da L’internazionale per un’ immagine che racchiudeva l’orrore del naufragio di Lampedusa dello stesso anno. Fu premiata per la sua particolare angolazione. Che ruolo hanno i “carpe diem” nella sua fotografia?
“Sono le circostanze che si presentano sul momento. Eravamo tutti fuori e non potevamo immaginare la disposizione delle bare. Una volta entrato non sono riuscito ad alzare nemmeno la macchina per scattare: quella scena mi ha pietrificato. Giravo attorno alle bare. A un certo punto vidi una scala e in un attimo pensai di salire. Così è nata quella foto”.
Oltre a essere fotoreporter è anche fotografo di scena, come tale lavora per il Teatro Stabile. Ci vuole dare una sua opinione su quello che sta succedendo allo Stabile e ai teatri in genere?
“È una pagina molto dolorosa anche se sembra ci sia un barlume di speranza. È chiaro che il teatro è cultura e va salvaguardato e devo dire che forse il nostro paese non gli ha dato molta importanza. E questi sono i risultati. Dovremmo vivere di cultura e turismo, dovremmo essere capaci di valorizzare questi aspetti. Lo Stabile è stato sempre un teatro prestigioso per i grandi nomi e gli spettacoli andati in scena. Spero si possa risolvere il problema facendo ripartire il motore di questa economia dietro la quale ci sono delle famiglie e tanti lavoratori. Il teatro non può morire”.
Intervista realizzata da Anastasia Viola
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