“La lotta alla mafia e alla corruzione dovrebbero rappresentare un sistema integrato e invece sono viste come due entità separate e distinte”. Queste sono le parole iniziali del giudice antimafia Nino Di Matteo pronunciate durante l’incontro “Giustizia, Riforme e Antimafia” promosso ed ideato da Addio Pizzo sezione di Catania. Incontriamo il magistrato subito dopo il dibattito.
Sono passati oltre vent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio. Cos’è cambiato da allora nel rapporto Stato – mafia?
“La situazione oggi è peggiorata. Il rapporto mafia e politica dovrebbe essere quello che, nel 1976 con la Commissione Parlamentare Antimafia di Pio la Torre, scriveva i nomi e i cognomi di coloro che non erano ancora oggetto della politica o della magistratura ma avevano rapporti con la mafia. Sogno una politica antimafia che non deleghi tutto alla magistratura facendo fare dieci passi indietro rispetto a quello che è stato fatto. Le sentenze definitive sottolineano i rapporti tra lo Stato e la mafia. È da poco passato in giudicato il provvedimento nei confronti del senatore Marcello Dell’Utri, promotore ed organizzatore dell’avventura politica di Forza Italia, in cui si evince la sua funzione di intermediario tra i capi della mafia palermitana e siciliana con l’allora imprenditore Silvio Berlusconi. Affermo che il momento che stiamo vivendo è peggiore, perché nonostante ci siano le sentenze definitive ancora alcuni di questi personaggi discutono di riformulare la costituzione. Nemmeno ciò che è scritto vale a paralizzare l’attività politica. A distanza di vent’anni è demandato alla magistratura il compito di recidere il legame tra politica e mafia riparandosi dietro lo schermo della sentenza definitiva e nonostante tutto alcuni soggetti continuano ad essere protagonisti della nostra scena politica. Mi sto limitando solo a ricordare dei fatti, anche se ricordare può essere più rivoluzionario che esprimere un’opinione”.
In seguito alle minacce ricevute da parte di Totò Riina è stato sottoposto ad eccezionali misure di sicurezza annunciate alla stampa dal ministro Angelino Alfano, che promise pubblicamente l’assegnazione di un dispositivo di sicurezza che impedisse l’attivazione di telecomandi per esplosivi nell’area di passaggio del veicolo blindato. A tutto questo non ci sono stati atti concreti. Le varie associazioni antimafia, la gente comune si è mossa per sensibilizzare l’opinione pubblica sui gravi rischi che è costretto ad affrontare quotidianamente. Cosa risponde a tutto ciò?
“È molto importante per me il calore della gente, che in maniera assolutamente spontanea ha manifestato una solidarietà vera e fattiva. Questo non significa sostenere solo la mia persona ma difendere ed appoggiare la causa per cui si sta combattendo”.
Nel 1991 entra in magistratura quasi in concomitanza con le stragi di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Che cosa significava tutto questo per un giovane palermitano?
“Faccio parte di quella generazione di magistrati che quando hanno deciso di fare il concorso in magistratura cercavano di ottenere un riscatto per la propria terra. La prima volta che indossai la toga fu la notte tra il 23 e il 24 maggio durante la camera ardente allestita per Falcone. Non potrò mai dimenticare l’odore di morte che si respirava”.
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