A poco più di un mese dalla pubblicazione del primo volume, “A che serve essere vivi”, Bietti edizioni, curato da Massimiliano Scuriatti, dedicato al Teatro di Pippo Fava e dopo il debutto nello stand della Regione Sicilia al “Salone del Libro” di Torino incontriamo Elena Fava, figlia del giornalista e sostenitrice del progetto editoriale. Approfondiamo e conosciamo gli sviluppi di quest’importante iniziativa letteraria senza dimenticare la sua condizione di figlia e di donna impegnata nella legalità e nella lotta alla mafia.
Questo progetto editoriale a cui lei ha partecipato attivamente com’è nato?
“Nel 1987 nacque un’idea primordiale di questo lavoro con un editore catanese, oggi non più tra noi, che mi diede piena fiducia e libertà di raccogliere e ordinare tutti i testi teatrali di mio padre. Mi accorsi che alla sua morte c’erano almeno otto testi non solo non rappresentati ma del tutto sconosciuti, quindi la mia intenzione era creare un qualcosa che potesse ricordare e diffondere il patrimonio drammaturgico lasciato da Giuseppe Fava. In questo primo lavoro non c’era uno spirito critico, mancavano le recensioni o le interviste. L’incontro con Massimiliano Scuriatti mi ha permesso d’inquadrare il tutto in maniera diversa. Abbiamo cercato foto di scena, materiale teatrale inedito e inserito le interviste a personaggi vicini a mio padre come Ida Di Benedetto e Leo Gullotta. Questo tipo di filone continuerà anche negli altri volumi. Mi auguro che questo libro stuzzichi la curiosità di registi e produttori teatrali in modo da diffondere alle nuove generazioni il suo pensiero”.
Come definisce il modo di scrivere di suo padre?
“Fava era un autore diverso dagli altri, anche in un semplice articolo di cronaca si notava una capacità straordinaria di esternare le emozioni. Quando negli anni sessanta incontra Mario Giusti, direttore storico dello Stabile, si creò un’ottima squadra professionale. Era un giornalista con la G maiuscola e credeva nel suo lavoro seguendo sempre i suoi principi. Mi rendo conto che oggi è difficile esserlo, però se c’è l’impegno e la costanza si può tornare ad avere di nuovo quello spirito etico di cui parlava mio padre”.
Il cinque gennaio di quest’anno, in occasione del trentesimo anniversario dall’omicidio, il Teatro Stabile ricorda Giuseppe Fava. Cos’ha provato?
“Con una certa emozione ho detto: “Giuseppe Fava ritorna in quella che era stata la sua seconda famiglia”. Il teatro era l’altra famiglia con cui viveva immerso nei suoi personaggi. Ci sono voluti trent’anni per capire la modernità dei suoi testi. Violenza, sopraffazione e sottile ragionamento sono i capisaldi della sua drammaturgia e, forse, per questo i giovani hanno scoperto in lui una voce che li può rappresentare o aiutare”.
Questa riscoperta dello Stabile non è arrivata, forse, un po’ tardi …
“Sicuramente. Da diversi decenni si potevano produrre molte opere. Ancora oggi Giuseppe Fava continua ad essere un personaggio scomodo e con la cattiva condizione economica alcuni direttori del passato magari hanno preferito non condividere le sue idee e così sono passati trent’anni”.
Cosa significa essere figlia di un uomo trucidato dalla mafia e come si vive con questo peso addosso? Si può perdonare?
“Non si perdona mai. Non si può perdonare non solo per cosa abbiamo subito, ma anche per tutto quello che hanno impedito all’uomo Fava di poter continuare. Io non vivo con quest’odio dentro, però non si può superare un avvenimento simile. Penso sempre al dolore di mia nonna e l’immensa sofferenza provata. Ne “La Violenza” il patimento della madre dilaniata dalla morte violenta del figlio viene descritta con un pudore e una rabbia così forte da far paura se poi si pensa che questo sentimento è stato realmente provato nella realtà. Non esiste il perdono, né la rassegnazione. Non ho mai augurato la morte a nessuno, perché sono contro la pena di morte. Mi piacerebbe, però, che un giorno questa gente si svegliasse con una coscienza ritrovata e un rimorso tale da mangiargli il cervello. Una pena di questo genere credo basti per il resto della vita”.
Qual è l’insegnamento più grande che le ha lasciato Giuseppe Fava?
“Credere che questo mondo possa cambiare e avere la sensazione di essere sempre uomini liberi, senza che questo desiderio possa intralciare la libertà altrui. Avere sempre la possibilità di dire quello che accade e non cedere ai compromessi”.
Il prossimo autunno sarà un periodo molto caldo per la sua attività e la Fondazione Fava. Possiamo avere qualche anticipazione?
“Ci sarà una collaborazione con l’università di Catania sul tema della legalità. Avverranno una serie d’incontri con tutti i dipartimenti dando la possibilità agli studenti di acquisire dei punteggi e nel contempo mantenere viva la memoria e creare un dibattito utile per il loro futuro di uomini onesti e liberi”.
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