Le origini orientali del siciliano


 

“Da sempre si ritiene che Trinacria, l’antico nome della Sicilia, sia riferito alla forma dell’isola, denominata ed identificata in forza della concordanza col nome greco che fa riferimento alle tre punte. In realtà il nome è stato attribuito all’isola dai Siculi ed è quindi una parola sanscrita: il suo significato si inquadra meglio con i connotati che l’isola a quell’epoca possedeva. In sanscrito trina vuol dire erba, giardino, parco, bosco e kria significa fatta, creata, costituita (corrisponde al latino creo). I Siculi quindi, alla vista di tanto splendore, non trovarono di meglio che identificarla con il giardino dell’Eden, difatti la chiamarono Trinacria, cioè giardino” questa una delle tante, interessantissime spiegazioni riportate nell’ ” Origine orientale del siciliano”, di Alfredo Rizza, Ed. Marna, testo nato dalla coraggiosa ricerca di questo studioso, “archeologo per passione”, che abbiamo incontrato nel pomeriggio di domenica 17.11.13, in occasione della presentazione organizzata dall’Associazione Sicilia-India con il patrocinio del Comune di Viagrande, presso i saloni della Biblioteca Comunale.

Dott. Rizza com’è possibile che il siciliano, conservi le reliquie più illuminanti e preziose della preistoria mediterranea e soprattutto considerare che nella lingua di questo popolo isolano, si mantenga invece gelosamente  custodito un grande segreto? “Eppure, pare che sia così, e ciò che colpisce di più, anche me che per anni ho affrontato e mi sono letteralmente innamorato di questo studio, è che l’inconsapevole custode di questo tesoro sia proprio il popolo, che con un certo disprezzo, sino a non molto tempo fa, s’era ancora adusi ad indicare con l’appellativo di plebe o volgo. Un lavoro lento, minuzioso, evocativo, un’indagine attenta nei meandri della parlata delle persone anziane e dei pochi che ancora persistono nella loro espressione gergale: preziosi analfabeti incontaminati, nonostante l’imperversare dell’informazione, della televisione e dello sradicamento delle nuove generazioni. Dalla comparazione fonetica ed etimologica del siciliano con la lingua sanscrita emerge uno strettissimo e sorprendente imparentamento, quasi speculiare nei suoni, nella forma, nei contenuti. Oltre duecentocinquanta glosse, quasi una lingua, sbalorditivamente identiche alla lingua dei dotti indiani sono la controprova e la conferma del lavoro strutturalistico e rivelatore, già edito del glottologo prof. Enrico Caltagirone.”-  Quindi, secondo questa  sua un’indagine profonda ed appassionata , si  certifica la filogenesi dei Siciliani che apparvero sulla scena dei nostri lidi provenienti dalla valle dell’Indo trentadue secoli fa? “Esattamente. Il punto è che bisogna spostare l’asse di appartenenza linguistica del dialetto dei Siciliani. Sulla scorta infatti delle ricerche del prof. Caltagirone, il mio lavoro attesta con metodo etimologico una tesi sino ad oggi solo vagamente intuita: se il siculo antico era una lingua orientale e non italica, il siciliano come tale partecipa solo parzialmente alla famiglia indoeuropea del gruppo Centum: la sua radice più profonda è saldamente connessa alle famiglie orientali indoeuropee, che con il sanscrito sono definite entro il novero del gruppo Satem.” –  Pertanto secondo la sua ricerca il moderno dialetto siciliano mantiene intatta o quasi l’impronta di un’origine esomediterranea? “Proprio così, in forza della filiazione diretta dal siculo, il moderno siciliano, fra tutte le lingue indoeuropee occidentali, costituisce un fossile vivente dell’antica migrazione di popoli orientali neolitici verso ovest europeo. E tutto ciò che affermo e che ho dedotto dai miei studi è supportato da dati storici e dettagliati riscontri scientifici.”

Questo invero lo si evince sfogliando il testo ma in particolare ascoltandone l’autore che cita fonti, nomi, testi, eventi e assonanze semantiche in effetti stupefacenti nella loro corrispondenza linguistica, non solo etimologica e fonetica.

Un libro per addetti ai lavori, dunque? “Il mio libro è un libro per tutti, ma non è un libro semplice. Il suo paradosso probabilmente sta nella fermezza e nella sicurezza nell’argomentare un po’ perentorio forse, ma fa da contraltare al dubbio, che sempre si insinua nel lettore, anzi spesso ho riscontrato incredulità dinanzi a “rivelazioni” che sconvolgono il suo stabile universo culturale.”

Ed infatti, è questa la sensazione e l’atmosfera che si respira in una sala  gremita di gente, fra cui molti studiosi e addetti ai lavori è vero, però anche tanta folla di curiosi e parecchi giovani, un aspetto questo che notiamo con piacere.

“…qual pria dirò, qual poi, qual nell’estremo racconto serberò delle avventure perigliose…dell’ospitalità ci unisca il nodo, benchè quindi lontan sorga il mio tetto.” Con questi versi dell’Odissea, di Ulisse che  accolto presso l’anaktoron di Alcinoo, scioglie i dubbi dei Feaci che l’ascoltano, ci vien da accostare la figura di Alfredo Rizza, uomo e studioso; e ci vien da accostare l’origine di una patria smarrita e non sia da meno la nostra ospitalità nell’accettare le sue parole lontane. Parole che vengono da millenni di armi e viaggi avventurosi, impregnate del vento antico che ha scavato sentieri nel tufo, riponendo tra i boccioli del cappero, tra i ciuffi della macchia mediterranea il sentore di fragranze esotiche. A noi lettori scoprire dopo secoli questa misteriosa essenza… a noi la possibilità di riassaporare nuovamente il profumo dimenticato della nostra terra perduta, abbandonata un’alba carica di tristezze e speranze migliaia di anni fa.

L’antico e sempre nuovo destino dei migranti che, come una maledizione, accompagna la storia del popolo siciliano.

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