Luisa Brancaccio: “La famiglia? Potenzialmente pericolosa”


Luisa Brancaccio, scrittrice e viaggiatrice napoletana, ha esordito partecipando al libro collettivo Gioventù Cannibale, e dopo vent’anni, nel 2013, ha pubblicato con Einaudi il suo primo romanzo Stanno tutti bene tranne me, un piccolo capolavoro dalla scrittura essenziale, franca e umana, vincitore nel 2014 del premio Volponi Opera Prima. Un romanzo che affonda con profondità e delicatezza nei vissuti delle donne, nell’essere madre, figlia, moglie…

Il dolore è il grande protagonista?

“Sì, probabilmente il dolore e il suo potere di cambiare le persone, è questo che osservo. La capacità che hanno gli organismi di adattarsi al nuovo. La vita stagnante puzza e brulica di animali schifosi, ho il terrore della vita ferma, è troppo simile alla morte. Si cresce nella crisi, non nella prosperità, perciò metto i personaggi di fronte alla sofferenza e aspetto di vederne l’azione vivificante, prima distruttiva poi improvvisamente costruttiva. E’ al movimento che guardo, alla trasformazione. Le storie che racconto sono nodi che si sciolgono”.

Lei parla di assenza di emozioni all’interno dei nuclei familiari: dunque i legami affettivi sono come i buchi neri delle nostre galassie emozionali?

I legami, i sentimenti all’interno della famiglia semplicemente non sono liberi, sono chiusi in un contenitore. Ci sono firme da apporre, testimoni, è un contratto, la famiglia è un’istituzione, è burocrazia. E non ce n’è un solo tipo, solo che tutte hanno la caratteristica centrale di essere un luogo chiuso, appartato. Un luogo dove è possibile mettere in atto il proprio lato più oscuro. E’ un postaccio la famiglia, è un anfratto buio dove si può commettere un crimine. Ma è solo un luogo. Poi sono le persone che fanno la differenza. La famiglia è sempre potenzialmente pericolosa perché ci sono elementi molto forti e molto deboli a strettissimo contatto ma l’amore, la dedizione, la delicatezza, l’esercizio di potere, la violenza, fanno la differenza. Le scelte individuali fanno la differenza”.

C’è una tesi discussa all’inizio del romanzo nel dialogo tra il dottore e la ragazza: l’amore è sempre accompagnato dalla violenza. Oppure la violenza non è un sentimento ma un’azione, che implica una scelta. E’ questa la tesi che il romanzo affronta? L’amore di un genitore verso un figlio ha in sé qualcosa di violento comunque, forse anche nel sentimento di possesso, di appartenenza dell’altro a sé? Si possono scegliere le emozioni/sentimenti da agire o siamo agiti da esse?

“In realtà nessuno dice che l’amore è sempre accompagnato da violenza. Al contrario. Può esserlo e questo intende sottolineare che le due cose in genere si escludono a vicenda. C’è una incongruenza evidente tra amore e violenza. Eppure a volte coesistono. E possiamo osservare lo strano fenomeno per tutta la vita senza mai venirne veramente a capo. Senza capire perché alcune persone scelgono i sentimenti da agire e altre invece sono agite dai loro sentimenti, appunto”.

Margherita, la protagonista, cadenza il ritmo del libro, con la sua crescita umana ed emotiva. Il dolore, l’elaborazione di un lutto, diventa grimaldello per un cambiamento sano. Un percorso necessariamente individuale, secondo lei può esserlo per il gruppo sociale, la famiglia in questo caso, nella quale quella singola persona vive?

“Vivendo a stretto contatto ci attacchiamo di tutto, stati d’animo, sentimenti e virus dell’influenza.  Nessuno di noi è impermeabile, comprendere questo significa comprendere la nostra potenza nell’influenzare la vita degli altri. Significa responsabilizzarsi”.

La capacità di un essere umano di cambiare e rinnovarsi viene esplicitata dalla vicenda dei due coniugi, i vicini di casa di Margherita, che hanno avuto un lutto. Come si lega questa vicenda a quella di Margherita? Perché il cambiamento parte sempre da una donna?

“Non lo so, non sono neanche sicura che l’attitudine al cambiamento sia una caratteristica della natura o della cultura femminile. L’unica cosa che mi viene in mente è che il potere è sempre reazionario. I maschi sono in una posizione dominante nella società e questo potrebbe renderli tendenzialmente conservatori. Non li invidio i maschi, devono contrastare una cultura di appartenenza talmente difficile, la cultura della competizione, dell’autoaffermazione, del dominio, dell’assottigliamento dei sentimenti a favore dell’azione. Quando ci entro in relazione intima mi sembrano sempre dei super eroi, si portano appresso questo fardello terribile e combattono per poter fare cose che a noi donne sono immediatamente consentite, per esempio esprimere le proprie emozioni, curare, amare, chiedere aiuto”.

 

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