Ha vissuto tra due mondi agli antipodi: il Bronx e i campi d’Abruzzo, oggi è una sorta di eroina dell’ambiente. Maria Rita D’Orsogna è tra i vincitori del premio Ambasciatore della Natura consegnatole a Palermo dal Centro Parchi Internazionale diretto da Franco Tassi. La docente di fisica in California, attivissima nel combattere l’invadenza delle trivellazioni petrolifere in Italia e nei mari circostanti, in questi primi giorni del 2012 partecipa ad una serie di conferenze per sostenere le aree di particolare pregio naturalistico nel mezzogiorno d’Italia (Abruzzo, Basilicata, Puglia e Sicilia); in particolare a Pantelleria ha tenuto tre incontri con diversi circoli dell’isola, grazie al prezioso supporto di Guido Picchetti, grande sostenitore nella tutela del mare e nello specifico impegnato attivamente per la costituzione del Parco Marino della “perla nera nel Mediterraneo”.
Si è battuta contro il petrolio inquinante, contro la disinformazione, e contro le forme di lassismo della gente comune. “Qui in Italia – sottolinea – molto spesso il cittadino certe cose non le sa. Ma anche quando le sa, l’attivismo degli italiani è spesso deludente. Ci sono cittadini eroici, ma la persona media crede che ci sarà qualcun altro che li salverà oppure, accetta tutto fatalisticamente, ritenendo che è inutile perderci tempo perché tanto è tutto già deciso”.
È professore associato presso il dipartimento di matematica della California State University at Northridge, a Los Angeles. Figlia di genitori abruzzesi emigrati negli Stati Uniti prima che lei nascesse. Ha studiato fisica all’Università di Padova e poi ha seguito il dottorato a Los Angeles. “È una città che agli europei può sembrare difficile – racconta – con spazi enormi, la necessità di una macchina, la mancanza di un vero centro cittadino, ma che io amo particolarmente”.
Perché?
“La maggior parte degli abitanti non è bianca, è un luogo in cui nessuno si sente diverso. C’è molta ricchezza umana e culturale. È la mia casa”.
Palermo le consegna il premio Ambasciatore della Natura. Com’è nato il suo impegno in fatto di tutela ambientale in Abruzzo e in Italia (Adriatico, Basilicata,Pantelleria, etc.) ?
“ Nell’ottobre del 2007 mi telefonò un amico da Lanciano, in Abruzzo, dove vivono i miei genitori e in conversazione menzionò questo misterioso “centro oli” di Ortona. Non c’erano molte informazioni all’epoca su quella che poi scoprimmo essere una raffineria proposta dall’Eni fra i campi del Montepulciano per trattare petrolio fortemente inquinante. Così, da lontano, anche se tutti mi dicevano che era una battaglia persa, mi misi all’opera”.
Come si attivò?
“Cercai di conoscere meglio la situazione, parlai con colleghi americani, con persone di Ortona. Una volta che il quadro mi divenne chiaro – sui limiti emissivi di sostanze inquinanti in Italia, sull’idrogeno solforato, sugli effetti degli scarti petroliferi nella vita delle persone e sul ciclo agricolo e ambientale – ho cercato di diffondere il messaggio ai cittadini. Pian piano la battaglia si è allargata alle concessioni marine d’Abruzzo e in altre parti d’Italia: con inviti di coinvolgimenti in altre realtà locali come Savona, la Brianza, la Murgia, il Polesine. Chioggia, le isole Tremiti, la Basilicata, il Salento, Pantelleria. Siamo un Paese solo e salvare l’Abruzzo non serve a niente se poi invece i pozzi li fanno in altre regioni. Non possiamo pensare di attrarre turisti in Salento o a Pantelleria ed accoglierli con raffinerie e pozzi di petrolio. Abbiamo l’esempio lampante di Taormina e di Gela. La prima tanti anni fa rifiutò di diventare sede di impianti petrolchimici, la seconda disse sì. A distanza di 50 anni, è evidente quale sia stata la scelta più oculata e chi ha ora una qualità di vita migliore”.
Il petrolio arricchisce il Paese?
“Ad arricchirsi saranno gli investitori stranieri e non certo i cittadini, visto che le royalties, e in generale le percentuali che restano sul territorio in Italia, sono bassissime. Il più grande giacimento europeo è in Basilicata e produce solo il 6% del fabbisogno nazionale. Oggi la Basilicata è la regione più povera d’Italia, trovano petrolio nel miele, le dighe sono inquinate da idrocarburi, con morie di pesci, alcune sorgenti idriche sono state chiuse, seppelliscono immondizia tossica petrolifera nei campi e trivellano nei parchi. Vigneti, meleti e campi di fagioli che sorgono vicino a pozzi e raffinerie sono rovinati. I tumori aumentano e così pure la disoccupazione e l’emigrazione”.
Che limiti legali ci sono in Italia?
“Fino al 2010 si potevano costruire piattaforme dove si voleva. Nel 2010 arriva il decreto Prestigiacomo che impone il limite a circa 9 km da riva. In California, per contro, è dal 1969 che non si costruiscono più impianti petroliferi in mare, e la zona di interdizione alle trivelle off-shore è di circa 160 chilometri per proteggere turismo e pesca. Il raffronto non regge: 9 km contro 160. Che protezione può offrire un pozzo a 9.5 chilometri da riva?”.
La situazione delle trivellazioni petrolifere off-shore riguarda l’intero Mediterraneo. Oltre all’Italia sono coinvolte molte altre Nazioni che lambiscono le sue sponde (Malta, Tunisia, Libia, Grecia, Cipro, Israele…). Come rispondere alla corsa all’oro nero nel “Mare Nostrum”?
“Le basi politiche per poter operare ci sono: basti pensare alla Convenzione di Barcellona, ai protocolli sottoscritti da tutti i Paesi Membri, Unione Europea compresa, e all’UNEP-MAP (Units Nations Environment Program-Mediterranean Plan Action), l’organismo istituito dalla Convenzione sotto l’ombrello della Nazioni Unite per realizzare il Piano di Azione per la Tutela Ambientale del Mediterraneo. L’Italia dovrebbe giocare un ruolo fondamentale in tutto questo. Ad esempio, un buon punto di partenza sarebbe un accordo con le nazioni dell’ex Yugoslavia per vietare le trivelle in Adriatico. Si potrebbe poi sperare in una azione allargata che riguardi i paesi di tutto il bacino Mediterraneo”.
Come vedono negli USA la situazione della corsa all’oro nero nel Mediterraneo?
“Non se ne parla molto perché non ne parla nemmeno più di tanto la stampa italiana. Negli Stati Uniti sono ancora più sconvolti quando spiego loro che fino al 2010 non c’erano regole per il petrolio in mare. Ma gli americani sono anche un popolo pratico, e la prima cosa che dicono è: cosa posso fare in prima persona per aiutare? Sarebbe bello se anche in Italia potessimo essere un po’ così”.
Perché lei fa tutto questo?
“Perché personalmente non posso accettare che delle ditte straniere vengano a fare in Italia delle cose che altrove non sarebbe lecito, e ciò a causa, principalmente, dell’ignavia di chi ci governa”.
Chi soffrirà gli effetti delle trivelle selvagge?
“Il contadino, il pescatore, l’operatore turistico, il cittadino che vive vicino all’impianto petrolifero, e soprattutto un domani i nostri figli”.
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