Michele Bean: “Vi racconto i segreti del winemaker”


Gli anglismi, si sa, fanno moda e suonano chic. Allora forse definire gli enologi winemaker fa più figo. La sostanza è la stessa: l’amore per il vino, il contatto con la terra, l’esperienza sul campo, conoscenza, competenza e professionalità, ma soprattutto «passione, costanza e lungimiranza». Così, Michele Bean, trentacinquenne friulano, è diventato uno degli esperti di vino più quotati in Italia, ad oggi consulente di varie aziende vinicole, fra cui David Feresin, Talis Wine e Tenuta Blasig in Friuli Venezia Giulia, Podernuovo di Bulgari in Toscana, Budimir in Serbia e ben 4 in Sicilia, la Moresca, Cos, Wiegner e Benanti.

Michele quando è iniziato il suo rapporto con la nostra isola e perché?

«Mio padre mi diceva di non mollare mai, così nel 2003, rientrato in Italia dagli Stati Uniti, ho iniziato ad inviare curricola a raffica e mi ha risposto il direttore dell’azienda vinicola etnea Cottanera».

Quali peculiarità ha la Sicilia rispetto ad altre regioni d’Italia e quali soprattutto l’area etnea?

«La Sicilia è già un brand e, seppur la Sicilia occidentale abbia fatto la storia del vino, l’area etnea è un brand nel brand. E’ una zona unica per le sue caratteristiche fisiche e naturalistiche. E’ divisa in contrade come la Borgogna, è vicina al mare e c’è un costante cambio di quota che contribuisce a dare alla stessa uvacaratteristiche enologiche diverse, uniche direi».

Come dev’essere un buon enologo?

«Come un musicista che, seppur vincolato da un pentagramma fisso, con sapienza, armonizza note diverse fra loro; come un architetto che, unendo le esigenze del committente/produttore alle sue competenze ed esperienze, riesce a creare un prodottoequilibrato».

Lei è consulente enologo esterno alle aziende, che differenza c’è fra enologo “esterno” ed “interno”?

«Diciamo che quello “interno” ha in più un rapporto continuo con l’azienda, ne respira l’ariae, attraverso la vinificazione, arriva al prodotto finito partendo dalla terra; quello “esterno”è più un catalizzatore di idee, uno strumento in mano al produttore per trovare la strada giusta in modo rapido e indolore; non respira l’aria aziendale, ma ha dalla sua la ricchezza dell’esperienza acquisita come un’ape di fiore in fiore».

Professione winemaker: ieri oggi e domani…

«Trent’anni fa la figura dell’enologo non esisteva, oggi è un mestiere che va per la maggiore, ma domani non esisterà più … non penso che tutta la terra possa diventare un vigneto, o scopriamo terre nuove oppure che facciamo, andiamo sulla luna?» (sorride)

 

Qualcuno ha definito gli enologi i responsabili dell’appiattimento qualitativo del vino, lei che ne pensa?

«Io concordo, ma la colpa non è dell’enologo, è del rapporto fra l’enologo e il produttore. Esistono tre tipologie di produttori: quelli che non sanno nulla e che vogliono essere istruiti in tutto e per tutto dal winemaker, in questo caso si rischia l’appiattimento; quelli che sono molto competenti, ma desiderano avere un parere in più dal consulente, questo è lo scenario migliore e di solito porta ad ottimi risultati; infine ci sono i produttori che ti pagano perché ti riconoscono delle capacità, ma poi fanno di testa loro, la peggiore specie … ».

Michele, quali sono i segreti di un buon vino?

«Potrei dire l’equilibrio, ma significherebbe tutto e niente, il vino buono è quello che piace, ma è anche vero che se un vino è buono è oggettivamente buono; è come il David di Donatello, puoi non comprenderne la bellezza se non hai la cultura, ma resta comunque un’opera d’arte. Così è il vino, devi avere un palato abituato ad apprezzarlo, prima ti piaceranno quelli più dolci e fruttati, poi quelli più centrati e austeri, alla finecarpirai le sfumature. Comunque un buon vino deve avere di base un iter di filiera completo e soprattutto deve far evincerele caratteristiche del territorio, questo è ciò che lo rende davvero unico».

 

 

 

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