Miko Magistro: “La politica si è impossessata della cultura”


Piazza San Francesco D’Assisi o comunemente nota come piazza Dusmet è il palcoscenico del nostro incontro con Miko Magistro. Seduti nei gradini di pietra lavica, sotto lo sguardo vigile del cardinale Dusmet, ripercorriamo gli ultimi successi di quest’anno scoprendo alcuni particolari percorsi di vita.

Protagonista in Foemina Ridens, Testa di Medusa e Non si sa come. Tre lavori diversi per contenuto e struttura impegnativi e difficile da interpretare. Qual è stato, fra i tre, il ruolo più complesso?

“Sono tre prove importanti. Pensavo, dopo aver superato i sessant’anni, di fare qualcosa più semplice (ride) anche se la fatica di un buon risultato è sempre fonte di grande soddisfazione. A mio modesto avviso, lo sviluppo narrativo di Testa di Medusa di Boris Vrian penso sia il lavoro più difficile che ho fatto nella mia vita. È un testo in cui la tensione si vive al massimo e il personaggio è molto complesso”.

Con lei il famoso detto “nemo propheta in patria” non esiste, in quanto la sua professionalità è riconosciuta tra la sua gente.

(ride)

“Non lo so. Sarà la storia a confermare questa mia opinabile bravura. Non voglio pensare a queste cose. Alla fine di uno spettacolo scappo quasi immediatamente dal camerino, perché penso subito a cosa devo cucinare”.

È vero che desiderava fare lo chef, il pittore o l’archeologo e non pensava di fare l’attore?

“Mi sono trovato sul palcoscenico per sbaglio. Accompagnai un mio amico amante del teatro ad un provino e alla fine tra i due scelsero me. Da allora per trent’anni non ho più smesso di fare l’attore. Iniziai a lavorare sin dall’inizio come protagonista con attori del calibro di Turi Ferro, Ida Carrara, Maria Tolu, Tuccio Musumeci, Pippo Pattavina e Mariella Lo Giudice. Non capivo come a fine mese facendo l’attore mi ritrovavo soldi in tasca. Era strano, per me, poter guadagnare recitando”.

Eppure il virus del teatro si è inserito prepotentemente in lei e ha contagiato anche sua figlia Valeria. È vero che ha cercato di evitare che facesse il suo stesso lavoro?

“Mia figlia si è iscritta di nascosto alla Silvio D’Amico. Non l’ho ostacolata, ma è un lavoro difficile ed oggi più che mai”.

Ha affermato più volte a differenza di alcuni suoi colleghi che il teatro non è morto.

“Il teatro è la vita, una parte fondamentale della nostra esistenza. Credo che non si possa vivere senza, perché rispecchia i nostri difetti e così possiamo arrivare a correggerli. È un mezzo utile per capire la nostra società. Alcuni personaggi hanno creato condizioni tali che il teatro muoia, ma non morirà mai. Sono felice di aver percorso almeno in minima parte il periodo d’oro del nostro Stabile con tour nazionali e internazionali. Mi inorgoglisce e mi onora di aver scritto parte della nostra storia. Mi auguro che il teatro ritorni ad essere quello che era un tempo”.

Una leggenda metropolitana racconta che un giorno di qualche anno fa abbandonò il suo amico Leo Gullotta alla stazione facendolo partire da solo alla volta di Roma in cerca di fortuna. Ci racconta come si svolse questa storia in realtà?

“Avevamo già il biglietto fatto. Fui colto da una dolorosa ed improvvisa sciatica. Ricordo che Leo in perfetto italiano mi disse: “sei uno stronzo”. Mi chiuse il telefono in faccia e stop. La notte dormii malissimo, perché mi risuonava in mente quell’appellativo”.

Si è mai pentito di questa scelta?

“No. Sono rimasto a Catania e facendo teatro sono stato penalizzato in popolarità, ma quando le persone mi riconoscono o si ricordano di un mio lavoro sono felice e questo mi basta”.

È molto vicino ai giovani. Dal 2007 al 2008 ha insegnato dizione e recitazione all’università Kore di Enna. Cosa le ha lasciato quest’esperienza?

“Ai ragazzi ripetevo spesso che fare teatro ai giorni nostri è davvero difficile. Viviamo, purtroppo, in un periodo in cui la sensibilità, il merito non contano. Fatico a farlo capire ai giovani. Mi accorgo che ci sono allievi bravi e talentuosi ma non basta, perché la politica si è impossessata non solo della cultura ma anche della gestione del nostro quotidiano. È inevitabile che il teatro debba fare i conti con la politica senza tenere in considerazione della situazione reale che si sta vivendo”.

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