Paolo Borrometi lo scandisce a chiare lettere: “Io amo la mia terra, amo la Sicilia”. E quando chi te lo dice è costretto a vivere sotto scorta, a rinunciare alle sue abitudini quotidiane, agli affetti più cari, e alla sua isola, quella parola, amore, ha un effetto diverso, dirompente. Paolo Borrometi è un giornalista di 32 anni, originario di Modica, in provincia di Ragusa. Diretto, deciso, con piglio da cronista ha smascherato attività criminali, facendo nomi e cognomi, dimostrando, documenti alla mano, quanto di marcio ci fosse in quell’oasi ragusana, la provincia che sembrava così lontana da certi meccanismi contorti, macchiati dalla criminalità e dalla mafia. Non più solo la provincia del barocco e di Montalbano, ma crocevia di traffici illeciti e patria di uomini d’onore.
A Paolo Borrometi hanno promesso dolore e morte, così, senza mezzi termini, in un crescendo di minacce, che passano pure attraverso il più noto dei social network. Parole inequivocabili: “Ti acceco con le mie dita. Ho preso la mia decisione, anche se mi arrestano c’è chi viene a cercarti. Tu morirai”. I post arrivano dal profilo di Venerando Lauretta, già condannato per 416 bis, e in attesa di sentenza definitiva. L’uomo inveisce: “Ora vai a denunciarmi, voglio pagarti il reato che commetto su di te – scrive nei confronti di Paolo Borrometi -. Comunque ti verrò a trovare pure che non vali i soldi del biglietto, sarò dietro la tua porta. Mi viene da ridere pensando il giorno che sei tra le mie mani. Non ti salva neanche Gesù Cristo. Il tuo cuore verrà messo nella padella e dopo me lo mangerò. Ho preso la mia decisione, anche se mi arrestano c’è chi viene a cercarti, tu morirai”.
La Squadra mobile di Ragusa soltanto pochi giorni fa ha individuato i due possibili autori delle ultime minacce di morte rivolte al cronista siciliano.
Ma proviamo a capire come nasce questa storia di giornalismo e coraggio, di mafia e intimidazioni che ha portato Paolo Borrometi a lasciare la Sicilia, scortato 24 ore su 24. Oggi è collaboratore dell’Agi, editorialista de Il Tempo e continua a seguire il giornale on line sul quale sono stati pubblicati gli articoli in questione, laspia.it.
Paolo, com’è iniziato questo capitolo della tua vita?
“La prima minaccia risale al settembre 2013 quando mi rigarono la macchina e mi scrissero: Stai attento. Di seguito tutte le altre che mi guardo bene dal legare l’una con l’altra. Nei miei articoli ho parlato dell’inquinamento a Vittoria, dell’omicidio irrisolto di un ragazzo di 30 anni, Ivano Inglese, dello scioglimento del comune di Scicli, per concentrarmi infine sul mercato di Vittoria dove la criminalità aveva messo le mani”.
Questi fenomeni sono legati tra di loro?
“A una prima disamina no. Poi però, in verità, probabilmente qualche connessione c’è. Tutto verrà chiarito ulteriormente nelle aule di tribunale”.
Insieme alle minacce arriva anche l’aggressione.
“Sì, nel 2014 mi hanno picchiato. Quel giorno andavo in campagna a dare da mangiare al mio cane che era stranamente agitato. Due uomini sono sbucati fuori, mi hanno immobilizzato il braccio destro e preso a calci e pugni. A causa di quella aggressione mi è rimasta una menomazione alla spalla”.
Dopo questo episodio è arrivata la scorta?
“No. Ho ricominciato a fare il mio lavoro. A metà luglio dello scorso anno, mio zio, una mattina, trova sul muro dell’androne di casa una scritta: Borrometi tu sei morto. Il 24 agosto 2014 danno fuoco alla porta di casa, io ero dentro con i miei genitori. E a quel punto mi mettono sotto tutela. Da allora un susseguirsi di minacce”.
Paolo, riesci a vivere una vita sociale?
“Assolutamente no. Da un lato posso dire che ho due persone splendide, le mie guardie del corpo, che non smetterò mai di ringraziare. Sono le prime persone che vedo la mattina e le ultime la sera. Mi permettono di vivere, per quanto possibile, la quotidianità. Ma di certo non è la quotidianità cui ero abituato. Quando torno in Sicilia non riesco a fare un bagno a mare o una passeggiata con un’amica. Ci sono limitazioni non indifferenti”.
Com’è ovvio, non si possono prevedere i tempi di questa condizione.
“No purtroppo no. Io spero che si risolva prima possibile. La squadra mobile di Ragusa e la Dda di Catania stanno indagando sui vari episodi. Mi piace sottolineare che li ho sentiti molto vicini così come sento attorno a me grande attenzione. Fare squadra in contesti come questo è un’arma preziosa. È più facile colpire una persona che cento insieme. E lo dico con cognizione di causa: Ho subìto l’isolamento in cui hanno voluto confinarmi e non sempre si trattava di persone con coppola e lupara. Hanno provato a delegittimarmi. E forse è l’aspetto che mi ha fatto più male”.
Come giudichi questa minaccia lanciata su facebook?
“Io non credo alla stupidità di queste persone. Penso che vogliano sfruttare i nuovi mezzi per affiliare la platea. L’intimidazione è alla base della loro forza e del loro potere. Devo ammettere che una minaccia affidata a un social network ha un potere deflagrante”.
Finita questa storia, torneresti a vivere in Sicilia?
“Assolutamente sì, io torno e voglio tornare. Io amo la mia terra altrimenti non farei quello che faccio. La nostra è un’isola
bellissima ma che ha tanti difetti. Non vedo l’ora di entrare a vivere a pieno titolo nella mia Modica, nella mia amata Sicilia. Tristemente ogni sera mi guardo allo specchio e mi rendo conto che ce la sto mettendo tutta per dare un contributo a questa terra che tanto amiamo”.
Quando muovevamo i primi passi come Sicilia&Donna, Paolo Borrometi ha creduto in questo progetto facendo parte della nostra famiglia giornalistica. Abbiamo viaggiato insieme per un periodo, fino a quando lui ha iniziato il suo percorso con laspia.it.
Paolo, ti aspettiamo in Sicilia per sorseggiare insieme un caffè, magari guardando quello straordinario scorcio di mare della provincia ragusana.
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