“Il brutto momento che sta attraversando il teatro è un problema solo italiano”. Diretto, preciso e vivace Romano Bernardi, attore e regista dal piglio ironico, con una grinta da far invidia ad un ventenne ricorda, durante una pausa del suo ultimo spettacolo, “Aragoste di Sicilia”, di cui firma l’adattamento teatrale, in programmazione fino al 25 maggio al Teatro Brancati, Teatro della Città, il suo arrivo in Sicilia e spera in una rinascita teatrale. “Creare un buon prodotto è sempre più difficile, perché mancano i fondi, ma spero che le nuove generazioni possano ritornare a sognare con il teatro”.
“Aragoste di Sicilia”, commedia in tre atti di Giuseppe Grimaldi e Bruno Corbucci, rappresentata per la prima volta negli anni settanta, è la sua ultima fatica teatrale. Quali sono state le novità adottate per ringiovanire un testo scritto anni fa?
“Ho cercato di rendere il testo più attuale, senza stravolgerlo, perché la commedia di Grimaldi e Corbucci è davvero spassosa e molto attuale nonostante siano passati quarant’anni. Ho cambiato qualche battuta magari più efficace per la rappresentazione, ma per il resto sono rimasto fedele al copione originale. Il testo era già perfetto e di esilarante attrattiva”.
Romano Bernardi, un milanese adottato a pieno titolo dalla Sicilia. Cos’è rimasto in lei della sua Milano e della sua formazione milanese?
“Credo tutto. Quando sono arrivato in Sicilia, era il 1961, avevo una formazione professionale “nordica”; infatti ho subito constatato che il concetto di regia era una cosa sconosciuta. Il regista era colui che si sedeva ad un tavolo ed ascoltava gli attori che leggevano. La mia prima regia qui fu nel 1966 con “L’Arte di Giufà”, di Nino Martoglio, un evento che suscitò un entusiasmo incredibile; non feci nulla di speciale, misi in scena dei criteri artistici che avevo imparato al nord e, probabilmente, fu questa la novità”.
Oggi esiste ancora il Teatro?
“Io ritengo che sia morto. Non c’è più il teatro di Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer o de La Compagnia dei Giovani; non ci sono più Romolo Valli, Tino Carraro o Giorgio De Rullo”.
Con lei si è formata gran parte dell’attuale classe degli attori dello Stabile. Quali sono le sue raccomandazioni iniziali quando parla agli aspiranti attori?
“Cerco di capire se hanno una propensione verso questo mestiere, se sono capaci di trasmettere emozioni. Alcune volte, lo ammetto, sono stato contraddetto; infatti ho avuto degli allievi, quando ero a Roma, inizialmente non appetibili come attori, poi con lo studio e l’impegno ho visto crescere la loro personalità e mi sono ricreduto. Oggi direi di non fare più questo mestiere, perché non c’è speranza. Non è finito solo il teatro, ma anche il mestiere dell’attore. A Roma hanno chiuso ben dodici teatri, perché il governo non onora i suoi debiti. Gli attori ed io lavoriamo per amore, perché ci piace tenere alta la bandiera dell’arte, ma le maestranze non percepiscono un centesimo da mesi e chi ha una famiglia o è solo vive una situazione molto triste. Questa è una mentalità tutta italiana, perché in Francia o in Inghilterra il teatro vive bene”.
Qual è, secondo lei, il peggiore errore che un attore possa fare nella sua carriera?
“Gli errori si fanno in qualunque mestiere. Anch’io nella mia carriera d’attore ho preso decisioni sbagliate come quando decisi di non andare al consolidato ed importante Teatro Stabile di Genova per quello di Bolzano. Dovevo scegliere se fare una parte discreta a Genova o un ruolo importante e di spicco nel giovane e periferico Stabile di Bolzano. Scelsi il ruolo importante e fu un errore, perché non ebbe un grande risalto nazionale, in quanto la nascente teatralità bolzanina fu una meteora; persi degli anni ed anche il contatto con un teatro di notevole importanza. Sbagliare la Compagnia o il Teatro con cui si decide di lavorare è facile. Far capire questo ai ragazzi è difficile, perché c’è la smania di esporsi e di andare avanti. Io consiglio sempre di fare una piccola parte in una compagnia importante piuttosto che un ruolo da protagonista in un teatro di provincia che non dà alcun risalto”.
Ritorna attore protagonista, dopo tanti anni, in coppia con sua moglie, Alessandra Cacialli, in “Solitudini”, uno spettacolo promosso dal “Teatro degli Specchi”, su un’idea tratta dai racconti di Giuseppe Marotta. È difficile lavorare con la propria moglie?
“No, non è difficile. Avendo insegnato ho capito certi meccanismi che prima mi erano addirittura estranei. Mia figlia Debora è cresciuta sentendo quello che dicevo e ha seguito la strada che io ho tracciato con molta attenzione, mentre mia moglie quando l’ho conosciuta era ancora agli inizi della carriera ed era ed è tutt’ora un’attrice molto istintiva e non di testa. Io e mia figlia siamo molto razionali ed insieme con mia moglie ci completiamo”.
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