Sant’Agata e “Il conto delle minne”


La festa di Sant’Agata è appena finita a Catania. La statua della “santuzza” ritorna nel Duomo, si chiude l’evocazione del suo martirio in attesa di festeggiarla ancora, il 17 di agosto; tacciono richiami, invocazioni, preghiere, lamentazioni e voti. Si spengono i fuochi d’artificio, le luminarie e le candele nelle chiese.

Nell’immobilità surreale che segue le giornate festive, parliamo di Sant’Agata come “personaggio letterario” con la scrittrice palermitana Giuseppina Torregrossa, autrice del Conto delle minne, romanzo edito da Mondadori nel 2009.

Il successo editoriale di quest’opera è straordinario: tradotto in dieci lingue, è tuttora disponibile in libreria, in un paese in cui c’è un’inflazione di pubblicazioni e i romanzi hanno una “vita media” non superiore ai tre mesi.

Il romanzo della Torregrossa, ambientato fra Catania e Palermo, vede la protagonista – Agata – attraversare una lunga serie di peripezie esistenziali che in un modo o nell’altro, fin da bambina, la vedono collegata alla figura della Santa.

Torregrossa, qual è il suo rapporto con Sant’Agata e con la festa?

“Rispetto a queste ricorrenze ho un atteggiamento assolutamente laico. Non collego Sant’Agata alla fede cattolica, colgo piuttosto l’aspetto concreto della storia della Santa e dei riti a lei dedicati. Per me è una giovane donna che incarna non la fede nel trascendente, bensì nell’immanente: una fiducia così inoppugnabile nelle sue idee che non c’è graticola né asportazione del seno che possa farla vacillare.

Spesso le vite delle Sante mi affascinano proprio per questo: la loro storia testimonia in maniera eclatante una forza interiore, un nucleo centrale di energia inestinguibile – quello che io chiamo “il monolite”. Si tratta di una forza contagiosa, che passa di donna in donna attivando le risorse più profonde di ciascuna”.

 


Di che cos’è fatto il monolite della santuzza catanese?

“A mio parere non può che essere fatto di qualcosa che somiglia alla lava vulcanica, un magma incandescente che richiama sia l’Etna sia il centro della Terra, inteso come fonte inesauribile di energia”.

Alla Santa catanese vengono strappate le mammelle a causa della crudeltà del console Quinziano. Ad Agata, la protagonista del suo romanzo, il seno viene tolto in età adulta in seguito a un cancro (Giuseppina Torregrossa ha svolto, per vent’anni, la professione di ginecologa ndr). Il senso di quest’affinità?

“Gli ammalati di cancro sono i martiri moderni. Nel caso delle donne e del loro corpo, purtroppo, ciò è ancora più evidente. Basti pensare a com’è iniziata la chirurgia del cancro al seno, con interventi demolitivi e terapie talmente invasive che spesso la cura uccideva più del male stesso. Per fortuna, col tempo, si è passati dalla mastectomia radicale allargata alla quadrantectomia fino a giungere alla semplice tumorectomia. Nel frattempo, però, intere generazioni di donne sono passate sotto i ferri del chirurgo (un uomo nella stragrande maggioranza dei casi) e ne sono uscite, nella migliore delle ipotesi, con una menomazione a vita, con ferite che il corpo faceva fatica a rimarginare e piaghe dell’anima che era impossibile cancellare”.

Lei è giunta al successo con “Il conto delle minne”, ma aveva già esordito con “L’assaggiatrice” per l’editore Rubbettino. Nel 2011 Mondadori ha dato alle stampe il suo terzo romanzo, “Manna e miele, ferro e fuoco”, una storia che si svolge nella Sicilia postunitaria e che vede come protagonista, ancora una volta, una giovane donna dolcissima e forte al tempo stesso. Come si relazionano tra loro i tre romanzi?

“C’è inevitabilmente un processo evolutivo che mi ha portato, via via, a una maggiore profondità nella scrittura, a scelte sempre più razionali e consapevoli nell’elaborazione stilistica, nella caratterizzazione dei personaggi e delle storie da raccontare. Se dovessi paragonare i miei tre romanzi a tre chakra, direi che il primo corrisponde a uno dei chakra più bassi, il secondo a quello del cuore e il terzo a quello della mente.

Tuttavia, nonostante le differenze, i lettori che scelgono di leggere per primo uno dei tre, solitamente poi vanno alla ricerca degli altri due – lo so perché intrattengo un rapporto quanto più è possibile diretto con il mio pubblico. Evidentemente, c’è un filo rosso che accomuna le tre opere; oltre ogni tentativo di razionalizzazione, la mia rimane una personalità passionale: quando scrivo, lo faccio innanzitutto per trasmettere emozioni. Solo in un secondo momento, mi preoccupo dei concetti o dei messaggi che voglio lanciare”.

Alcuni critici l’hanno inserita nel filone del realismo magico e hanno parlato di lei come della Isabel Allende italiana. Cosa ne pensa?

“Il paragone mi lusinga, questo è certo; ma se devo scegliere un modello autorale di riferimento, preferisco pensare a Gabriel Garcia Marquez. Le sue opere, a mio parere, si annoverano a buon diritto fra i classici, in taluni casi hanno creato una sorta di mitologia che ha segnato un solco indelebile nella letteratura mondiale. I romanzi della Allende sono sfavillanti, rutilanti, ricchi di storie bellissime, ma rimangono a un livello più epidermico: la Allende è figlia del suo tempo”.

E i suoi riferimenti nella letteratura siciliana?

“Ho amato follemente De Roberto, ed è ai Vicerè che mi sono ispirata mentre componevo Manna e miele, ferro e fuoco. Tuttavia, ultimamente, ho rivalutato Vitaliano Brancati: il suo Don Giovanni in Sicilia è un’opera straordinariamente emblematica della società patriarcale dei primi del Novecento e del modo di amare dei maschi siciliani in quel periodo. Mi appassiona meno, invece, la prosa di Gesualdo Bufalino, che trovo barocca e nevrotica al tempo stesso”.

Progetti a breve termine?

“A maggio uscirà per Mondadori il mio primo romanzo giallo Panza e prisenza, a settembre, per la collana I sassi di Nottetempo, il monologo teatrale Adele, che ha ricevuto nel 2008 il premio Donne e teatro”.

Chiudiamo con un ultimo riferimento alla “santuzza”. C’è un messaggio che può essere indirizzato alle giovani donne di oggi, attraverso la storia di questo antico martirio?

“Fortissimo e preciso, se non lo leggiamo con le lenti spesse e polverose della Chiesa cattolica che prende queste figure e le neutralizza, appannandone il potere. Riguarda il riappropriarsi del corpo e dell’identità femminile, l’avere fiducia in se stesse, credere nelle proprie idee e non scegliere le strade più facili per la realizzazione personale. Accettare le sfide e le difficoltà che la vita propone, porta a conseguire solide conquiste invece di successi effimeri”.

 

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