Herne Hill, cuore verde della Londra rurale del Sud, tra Dulwich e Brixton. E’ un radioso, rarissimo, caldo pomeriggio d’aprile, e l’immenso Brokwell Park, un tempo rifugio di aristocratici e scrittori in fuga dal caos di Londra, è un tripudio di colori e di odori avvolgenti. Con quest’atmosfera mi accoglie Simonetta Agnello Hornby. Il suo musicale e scandito accento palermitano, che non ha mai dimenticato neanche dopo 47 anni di vita trascorsa in Inghilterra, ricrea un’atmosfera al tempo stesso familiare e solenne. E’ proprio lei, Simonetta Agnello Hornby, nota scrittrice anglo-siciliana, che dopo innumerevoli e insistenti ricerche sono riuscito a trovare grazie alla “complicità” dell’editore siciliano Emilio Barbera e della gentilissima Ornella Tarantola, responsabile della Libreria Italiana di Londra.
Dopo una spremuta di limone e i convenevoli del caso, accendo il mio iPad per registrare la voce calda della scrittrice.
L’intervista a Simonetta Agnello Hornby
Simonetta Agnello Hornby, leggendo il suo libro La mia Londra, autobiografia narrata quasi in forma di un cunto siciliano, sono rimasto particolarmente colpito dall’intreccio mirabile tra la sua vita e quella del grande intellettuale dell’illuminismo inglese Samuel Johnson, del quale, all’inizio di ogni capitolo, lei riporta una frase illuminante e sintetica. Perché ha scelto quale mentore proprio Johnson?
Samuel Johnson mi è stato presentato da mio marito. Quando eravamo fidanzati mi portò agli Inns of Court, il quartiere degli avvocati. Io volevo diventare avvocato ed egli mi disse: “Se vuoi diventare avvocato, lavorerai qui!”. Allo stesso tempo mi fece vedere la casa-museo di Johnson. Samuel Johnson è un nome buffo, non è un nome serio, sembra quasi un nome inventato, il nome di un pupazzo. E io gli chiesi: “Chi è questo Johnson?”. Lui riprese: “il più grande illuminista inglese e il padre della lingua inglese”. Questo mi fece impressione, e poi fu sempre mio marito che mi fece leggere brani di Johnson, dicendomi che come scriveva Johnson non scriveva nessun altro, perché aveva il dono della parola quasi lapidaria. Johnson non è il padre dell’Illuminismo, anche se molti lo chiamano così, ma bensì il padre dell’Imperialismo inglese. Non era un imperialista, ma creando un Dizionario che comprendeva tutti gli altri dizionari inglesi di lingua e dialetto, realizzò una grande opera letteraria, perché sotto ogni voce o parola riportava dei brani di grandi scrittori e autori inglesi. Johnson ha fatto sì che tutte le colonie conoscessero l’inglese allo stesso modo, attraverso il suo Dizionario, e che tutti coloro che leggevano questo Dizionario apprendessero la poesia, il pensiero e la prosa inglese. In Italia non esiste un Dizionario del genere.
Dall’Isola all’Isola, due isole, così distanti e differenti nella storia?
Io ho sempre notato il fatto che siamo isola. Un’isola conosce i suoi confini e l’identità di un isolano è chiarissima. Chi è nato in Calabria non è siciliano. E anche l’identità dell’inglese è chiarissima. L’isola ha sempre paura di essere preda degli invasori che vengono dal mare: chi ha le coste non ha come difendersi, a meno che non abbia una marina. La Sicilia diventò colonia, gli inglesi decisero di aggredire per proteggersi. Però la paura è sempre la stessa, l’identità è sempre la stessa, il senso di accoglienza del naufrago o di chi vuole venire è sempre lo stesso. E uno dei paragoni più belli tra la Sicilia e l’Inghilterra lo vedo proprio ora. Noi siciliani accogliamo i migranti che vengono dall’Africa con una generosità straordinaria. Il popolo inglese è fatto di migranti, di gente che veniva da ogni parte del mondo e che veniva accolta con la stessa generosità. E quel che è interessante degli inglesi è che accoglievano i rifugiati. Chiunque voleva venire in Inghilterra era accolto e aveva l’opportunità di diventare inglese, se voleva. E se lo diventava, diventava come tutti gli altri inglesi.
In questa terra di migranti e di infinite stratificazioni etniche e culturali, come vive una donna siciliana che diviene londinese?
Quando sono arrivata per la prima volta in Inghilterra, ho trovato gli inglesi con un certo razzismo, che si rivelò soltanto quando io mi fidanzai con un ragazzo inglese. Fui ben accolta in Inghilterra, conobbi l’uomo che poi sposai e volendo rimanere più a lungo non potevo certo chiedere alla mia famiglia di pagarmi, per cui presi lavoro come cameriera presso un’anziana signora ed ogni sera, dopo il baby sitting, ero libera ed incontravo il mio innamorato. Questa donna fu gentilissima e mi insegnò tanto, ma quando capì che uscivo con un laureato di Cambridge diventò una belva e mi disse: “i nostri ragazzi sono per noi, non per voi! Non è giusto, non è giusto!”. Se mi telefonava un ragazzo dalla voce africana lei mi diceva “vieni al telefono!”, ma se chiamava il mio ragazzo inglese faceva finta di niente e riattaccava la cornetta. Vi fu proprio una lotta per evitare questo connubio infausto. Nonostante tutto ciò, questa signora era gentilissima e molto affettuosa con me, e una volta sposata e diventata madre di due bambini mantenni sempre l’amicizia con lei. Ma c’era sempre questa lotta, una sorta di protezione della loro ricchezza: un laureato a Cambridge era una ricchezza. E, una volta sposata, vengo accettata ovunque, come anche nel lavoro vengo accettata. Per cui, da questo punto di vista, gli inglesi cominciano male ma finiscono bene, perché poi accettano.
Come è essere donna (siciliana) a Londra?
Essere donna a Londra è esattamente come essere donna in Europa e altrove. In teoria abbiamo un trattamento di uguaglianza, in pratica no. Ovunque è la stessa situazione. Io sono siciliana, sono sempre stata siciliana, molto fiera delle mie origini e soprattutto accettavo tutto il brutto che c’è in Sicilia, anziché negarlo come facevano molti siciliani. Quando mi chiedevano “la mafia esiste davvero in Sicilia?” io rispondevo “certo che esiste!”. E questo molto tempo prima che Falcone e Borsellino fossero uccisi, e ne parlavo male della mafia, come uno deve. E in questo gli inglesi accettano. Però giocavo con le loro regole: ero un avvocato inglese, non volevo esclusivamente clienti italiani. Quando il Consolato cominciò a richiederci degli avvocati per clienti italiani, io mandai delle ragazze inglesi a studiare italiano a Perugia. Volevo che facessero loro questo lavoro, perché non volevo ghettizzarmi.
Quali sono i tratti comuni tra inglesità e sicilianità?
Enormi. Il primo è che siamo isolani, il secondo è l’ironia. Ma mentre quella inglese è ironia pura e pungente, noi siciliani spesso cambiamo l’ironia in sarcasmo. Il sarcasmo è dei vinti, mentre l’ironia è dei vincitori. Ma saremmo capaci di essere ironici. Inoltre noi siciliani siamo curiosi per natura, poi ci tagliamo le ali e non continuiamo. In questo anche gli inglesi sono curiosi, ma meno perspicaci dei siciliani.
Brixton e Ballarò. Potrebbe raccontarmi di questa Londra nera e multiculturale, in relazione al mercato palermitano di Ballarò?
C’è molto in comune tra questi due luoghi. Quando lavoravo a Brixton negli anni ’80 le cosche rivali si ammazzavano, come a Palermo. Ma se diventi cittadino di Brixton, puoi sentirti protetta.
Londra è la città del lavoro, della realizzazione dei sogni e della costruzione della carriera, ma è anche la città spietata che impone ai suoi abitanti ritmi di vita disumani. Come vede la crescente presenza italiana a Londra?
Vedo molto positivamente la presenza italiana a Londra. Mi fa piacere che gli italiani vengano qui per costruirsi una carriera lavorativa e un futuro. Credo che l’attuale emigrazione italiana sia di due tipi: il primo è della gente che viene a lavorare, che ha un passato di lavoro, l’altro è dei ragazzi di 18-20 anni, che non hanno mai lavorato o che hanno conseguito la laurea, o vengono per una serie di motivi legati all’amico o all’associazione di stampo mafioso che vende loro il biglietto per affari loschi, per cui vengono spesso gabbati. Questi due tipi di migranti possono e devono essere aiutati ad inserirsi nel mondo del lavoro inglese. Temo che i giovani, avendo molti altri connazionali a Londra, restino tra di loro e non migliorino affatto la lingua, non apprendano a conoscere la città e vivano relegati in un ghetto. Se hanno una famiglia che li mantiene, come spesso accade, riescono a campare, altrimenti fanno una vita grama, ma soprattutto non portano nulla all’Inghilterra e nulla ricevono da essa. E questa è una emigrazione triste. Non è certo colpa dell’Inghilterra ma di questa gioventù italiana che è molto spesso viziata, debole, insicura e anche molto arrogante. Si tratta di un viaggio inutile o di un viaggio che potrebbe essere più utile e fruttuoso. Quando io andai in Inghilterra a diciassette anni, nel 1963, fui la prima della famiglia ad avventurarmi in territorio inglese e ricordo che fu un viaggio costoso. Venni con delle ragazzine, mie compagne di scuola, e decisi di non stare con loro per imparare l’inglese che non conoscevo e odiavo. Fu difficilissimo e pesante, però alla fine imparai. Mi sembrava un dovere nei confronti dei miei genitori. E tuttora, nei paesi in cui vado, cerco di capire la lingua e di immergermi nella cultura di quel paese. Altrimenti, perché viaggio?
La piacevolissima conversazione, che è iniziata con una spremuta di limone alla siciliana, si conclude con il rito inglese dell’afternoon tea intorno alle 4.30. Lascio quasi a malincuore la casa di Simonetta Agnello Hornby, portandomi dentro l’ottimismo combattivo di una donna che, spezzando luoghi comuni e convenzioni sociali, ha fatto di Londra la sua città d’elezione, perché a detta del suo caro Samuel Johnson “quando un uomo è stanco di Londra, è stanco anche di vivere, perché Londra offre tutto ciò che la vita può offrire.
Intervista realizzata da Gaetano Algozino
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