Turi Zinna, siciliano, romano ormai d’adozione, tanti anni di drammaturgia e palcoscenico alle spalle, si presenta al nostro appuntamento indossando una camicia rosso fuoco come il sipario. In un freddo pomeriggio di dicembre, in occasione delle tappe catanesi del suo spettacolo “Doppio Legame” incontro Turi Zinna, in un bar del centro storico cittadino.
Turi Zinna, l’intervista
-Turi Zinna, attore, drammaturgo, uomo di teatro…chi è essenzialmente e come si definisce Turi Zinna?
Essenzialmente e senza dubbio, un drammaturgo, uno che da trent’anni scrive e porta in scena le sue opere, uno sperimentatore di ciò che è la scrittura tradotta in rappresentazione scenica, in personaggi. Penso, scrivo i miei testi cucendomi addosso i personaggi che li animano, di conseguenza i miei spettacoli nascono e si sviluppano in un continuo lavoro di ricerca e sperimentazione tra scrittura e quella che poi è la prova scenica. Lo spettacolo matura difatti di prova in prova, ogni volta cioè che lo porto davanti ad un pubblico.
-Quindi come dire che anche i suoi personaggi si evolvono di volta in volta, di rappresentazione in rappresentazione?
In qualche maniera sì, cambiano nel senso che il personaggio che penso, metto per iscritto e poi rappresento non è mai statico nella sua natura, lo creo in un certo modo, ma quando lo interpreto opero una mutazione intima, nella sua psicologia, nel suo essere personaggio davanti ad un pubblico che non è mai lo stesso. Sono sempre alla ricerca di quella consapevolezza dell’essere il personaggio, quel personaggio. C’è da dire, però che alla base di questo c’è una questione che da tempo oramai mi pongo ed è quella del relazionarsi dell’attore con il suo pubblico, cioè mi chiedo io attore come devo e come mi relaziono con il mio pubblico? Oggi, peraltro, basta vedere il talento in un attore o invece è importante che l’attore abbia la consapevolezza di sè come personaggio e del personaggio in cui si ritrova a vivere? -E lei che risposta si da?
Beh, in realtà questo è un mio intimo quesito, una riflessione in continua costante maturazione, quel processo di trasformazione di cui parlavo prima parte anche da questo.
-Lei fa drammaturgia da lungo tempo, ma come il suo teatro si colloca nella drammaturgia contemporanea, in che rapporto sta con essa?
Anzitutto comincerei dal concetto di drammaturgia che mi accompagna da tanto tempo oramai e a cui sono pervenuto anche grazie alla mia formazione in seno al teatro tradizionale. E’ impossibile dissociare la rappresentazione scenica dalla scenografia nella quale essa si snoda. E’ fortissima la correlazione che esiste tra lo spazio e lo spettacolo che vi si rappresenta. Se vi riflette, ogni epoca si è stata caratterizzata nel teatro dal tipo di spazio dove si è fatto teatro. Voglio dire che il teatro d’ogni epoca ha avuto quale spazio ove è stato rappresentato, un posto che rispecchiava la situazione socio-politica del periodo. Ciò avveniva nel teatro antico così come nel Settecento, o nel secolo scorso e succede in quello attuale. In fondo se ha fatto caso i luoghi oggi deputati a tale scopo sono sempre più di frequente spazi recuperati all’interno di vecchie strutture che all’origine magari erano sorte per tutt’altri scopi, come per esempio vecchi magazzini-merci, cantieri navali, ciminiere..insomma questi nuovi luoghi teatrali non danno forse il senso di precarietà in cui la nostra società contemporanea sta vivendo? Come se “momentaneamente” fossero stati recuperati, riadattati e utilizzati per fare teatro. Allo stesso modo, questi luoghi danno la possibilità di modificare la relazione spazio-rappresentazione, cioè conformare al tipo di spazio che sia ha lo spettacolo in sé stesso, renderlo in base al luogo dove si mette in scena e dunque modificarlo per renderlo quasi una logica conseguenza dell’ambiente circostante. Nel corso della mia carriera mi sono trovato a fare spettacoli ovunque, nei posti più improbabili per fare teatro, eppure con l’esperienza, ho imparato a farmi riassorbire dalla situazione, a ripensare lo spettacolo da proporre secondo la tipologia di luogo, spazio a disposizione, ambiente, come se quella rappresentazione da fare fosse nata specificatamente per quel dato luogo. Una realtà che agli inizi mi spiazzava, decentrava ma di cui in seguito ho imparato a trarne i vantaggi e benefici ed oggi è un fattore predominante nella mia drammaturgia.
-Cosa pensa della drammaturgia contemporanea?
Rispecchia esattamente la situazione di precarietà in cui viviamo. Vi è una profonda crisi dell’architettura drammaturgica negli spettacoli contemporanei e su di quest’ultima incide anche la scarsa o, a volte errata conoscenza, a mio parere, che si ha di essa. Si veda, per esempio, la suddivisione in atti; pochi realmente trattano questa suddivisione per come dovrebbe effettivamente essere nei tempi, nella struttura appunto.
-Attualmente lei è in giro per l’Italia con i suoi spettacoli; vi sono pure nuovi progetti per il futuro? Sì, in particolare sto lavorando alla realizzazione di un film di animazione su Ballata per San Berillo e poi un nuovo spettacolo fatto di microdrammaturgia su Catania Confessioni di uno stragista democratico, in cui mi riferisco a Catania come ad una città parallela ad uno Stato parallelo, legato a temi che vengono fuori da un concetto che definirei di “disturbo della personalità” che io identifico in questa città; come se Catania fosse vittima e contemporaneamente carnefice di sé stessa, come fosse un’arena che racchiude in sé una malattia sociale diffusa in Italia, l’ipocrisia di un paese che è simile ad una “famiglia disfunzionale”, direi che nella questione sociologica si potrebbe paragonare alla malattia mentale, dicendo che soffre di disturbi sociali. Catania è una città contraddittoria e una delle meno conosciute nella sua reale natura sia da chi vi abita e da chi no. Qui tutto ciò che è successo nell’ambito delle dinamiche nazionali del dopoguerra per esempio, è stato disattenzionato o raccontato con meno rilievo. Inoltre, da sempre tutto ciò che vi succede è sotto gli occhi di tutti eppure c’è un’assenza di percezione dei fatti, quasi che non si vedessero però sono lì, ci sono. E tutti noi abbiamo le nostre ferite in questa città.
– Lei è siciliano, da anni oramai romano d’adozione, oggi qual è il, suo legame con Catania e la Sicilia?
Pur non essendo originario proprio di Catania, in questa città vi ho trascorso molti anni della mia vita. E’ vero vivo a Roma ma torno spesso qui e in Sicilia in genere. Con Catania ho un legame strano, molto forte. Direi che in fondo non me ne sono mai andato, né allontanato veramente. Un fatto insolito succede in me come in tanti, forse tutti i siciliani: l’attaccamento inevitabile a questa terra malgrado la si disprezzi, se ne sparli. In me l’attaccamento alla Sicilia, a Catania è oramai interiorizzato, mi appartiene in modo del tutto naturale. Ciò si riflette nel mio teatro. Se penso ad uno spettacolo mi viene spontaneo pensare a Catania ed alle sue contraddizioni. Il rapporto che ho con questa città è di ricerca di vie, di posti e parti nascoste come fossero parti e posti nascosti di me stesso. Come dicevo prima penso che tutti noi abbiamo le nostre ferite in questa città, ce le portiamo dentro per sempre anche trasferendoci in altre città e luoghi.
E alla fine di una lunga ma gradevolissima conversazione, ci salutiamo con l’arrivederci a teatro per il prossimo “esperimento di evoluzione scenica” previsto per gli inizi di gennaio ancora qui a Catania; la mia curiosità adesso è davvero tanta.
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