«È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare».
Si apriva così la lettera scritta, pochi giorni fa, da 600 docenti universitari al presidente del Consiglio, alla ministra dell’Istruzione e al Parlamento italiano, promossa dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità.
Ma se «Nel tentativo di porvi rimedio alcuni atenei hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana» –prosegue la lettera- e se la storia non è nuova – aggiungiamo noi- (era il dicembre del 2009, infatti, quando Maurizio Crosetti su repubblica.it, denunciava un analfabetismo funzionale per circa il venti per cento dei laureati italiani) una domanda è d’obbligo: cosa è accaduto ad oggi? Quali gli interventi messi in atto, quali le proposte e le strategie attuate dai governi che si sono succeduti?
Linguisti, accademici, rettori, scrittori, storici e pedagogisti, l’hanno firmata tutti questa lettera, che di fatto si proponeva anche di fornire dei consigli ai destinatari: «ci permettiamo di proporre le seguenti linee di intervento: una revisione delle indicazioni nazionali che dia grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base, fondamentali per tutti gli ambiti disciplinari. Tali indicazioni dovrebbero contenere i traguardi intermedi imprescindibili da raggiungere e le più importanti tipologie di esercitazioni; l’introduzione di verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo: dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano. Sarebbe utile la partecipazione di docenti delle medie e delle superiori… Siamo convinti che l’introduzione di momenti di seria verifica durante l’iter scolastico – conclude la lettera- sia una condizione indispensabile per l’acquisizione e il consolidamento delle competenze di base».
Ma come nasce lo “studente analfabeta”? «I guasti iniziano nella scuola dell’obbligo», aveva risposto a suo tempo il grande linguista Tullio De Mauro, secondo cui «Il buonismo degli insegnanti ha fatto grossi danni e ormai si tende a promuovere un po’ tutti e non si sbarra il passo a chi non è all’altezza». E se a distanza di anni le cose non sembrano essere cambiate, di chi è la colpa? Lo abbiamo chiesto a Marco Romano, docente di marketing, imprenditorialità e business planning presso il Dipartimento di Economia e Impresa dell’Università di Catania, secondo cui tale situazione dipenderebbe «dalla pochezza della scuola media superiore, non in termini di docenza, ma di sistema. Si è arrivati ad una banalizzazione tale, che ora se ne pagano le conseguenze, certo –continua Romano ammiccando fra le righe a quel “buonismo” di cui parlava De Mauro- non sono tra i fautori del “bocciare è bello”, ma sono tra quelli che crede nella meritocrazia che riconosca le differenze, non credo che noi docenti si debba accompagnare tutti gli studenti fino alla fine, ci devono essere eguali basi di partenza, mi riferisco alle scuole dell’obbligo, ma poi deve esserci una selezione. D’altra parte è un problema che conosciamo e lamentiamo ormai da anni, questo, le tesi denotano una carenza di capacità retorica nell’argomentare un pensiero, i costrutti sono sempre più poveri, le frasi non ben articolate, sono spesso frutto di un banale copia e incolla. Possibili soluzioni? L’unica vera soluzione è quella di resettare in toto il sistema, di aggiornare i programmi ed insegnare nuovamente a scrivere. Nel nostro ambiente –ad esempio- la scrittura ha particolare valore, infatti utilizziamo il quesito aperto in tre pagine di foglio protocollo, come modalità di esame ormai standard per le lauree specialistiche e le lacune sono evidenti. Tornare sulla tecnica, dunque, sulle regole di grammatica e sulla sintassi, sarebbe utile a tutti».
Così fra una grammatica demodé e una “scuola delle competenze” ci sarà sempre un Don Milani nella bocca dei dirigenti più “inclusivi”; d’altra parte, autonomia scolastica docet, in azienda si sa quel che conta sono i numeri. E se tra il dire e il fare c’è di mezzo il “saper fare”, e al “sapere” viene preferito il “saper essere”, in quello che suona più come scioglilingua che come contenuto delle Indicazioni Nazionali per il curriculo, fra i tre litiganti l’abbassamento dei livelli gode.
“perchè resettare in toto il sistema” per togliere ogni responsabilità a chi ce l’ha? Non si può insegnare a scrivere pensieri chiari, sinteici, accattivanti e magari originali, è a volte un dono naturale, ma si può insegnare a scrivere correttamente. Chi non sa scrivere, non lo può insegnare.
La meritocrazia è discutibile spesso riguarda i figli di persone istruite ai quali tutto viene facile. Ma agli altri per emergere chi ci deve pensare se la famiglia non è in grado di seguirli? Solo pochissimi di loro entrano in competizione: i fuori classe, gli altri si scoraggiano e si perdono per se stessi e per la società.