In occasione del quarantesimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, vi riproponiamo un articolo pubblicato sul nostro magazine cartaceo Sicilia&Donna, uscito in edicola tre anni fa, scritto dal giornalista Valter Rizzo, autore (insieme a Stefano Maccioni e Simona Ruffini) del libro “Nessuna pietà per Pasolini”, che contribuì a riaprire le indagini.
“Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari…”. È il 14 novembre del 1974, quando il Corriere della Sera, in prima pagina pubblica un lungo editoriale, uno scritto anomalo per la tradizione paludata del quotidiano di Via Solferino. Un lungo j’accuse che traccia uno spietato ritratto del Potere, che delinea l’Italia della P2 senza che nessuno, ovviamente neppure il suo autore, avesse la minima idea della sua esistenza. In quell’ormai storico articolo Pier Paolo Pasolini racconta il Potere, la comprensione della sua reale natura nell’Italia a cavallo tra gli anni sessanta e gli anni settanta del secolo trascorso. Dodici giorni prima che si compisse un anno dalla pubblicazione di quello spietato atto d’accusa il suo autore veniva assassinato. Pensare di cogliere un rapporto di diretta casualità tra lo scritto sul Corriere e la tragica fine di Pier Paolo Pasolini sarebbe poco realistico; in quell’articolo vi sono, invece, alcuni punti, alcuni passaggi che spiegano a cosa stesse lavorando il suo autore, quali fossero le sue convinzioni e quali le domande che attraversavano la sua vita. Le tre righe citate in apertura indicano con
esattezza che Pasolini aveva contezza del mondo dell’estremismo di destra, che ne avesse frequentazione avendo trovato una chiave per esservi ammesso, seppure come tollerato ospite, ma come sempre curioso, avido di domande. Non giudice verso “i tragici ragazzi…” ma attento osservatore. Altro punto che da quelle righe emerge con chiarezza è la consapevolezza che Pier Paolo Pasolini aveva dello stretto legame tra il mondo dell’estremismo fascista e il crimine organizzato. Non a caso Pasolini parla di “malfattori comuni, siciliani e no” disponibili ad essere manovalanza al servizio di “persone serie ed importanti”. “Menti raffinatissime” le avrebbe chiamate anni dopo Giovanni Falcone. L’8 aprile scorso, sempre il Corriere della Sera ha pubblicato un lungo articolo di Pierluigi Battista che attacca a testa bassa coloro che ancora oggi cercano la verità sulla fine di Pasolini. Per Battista si tratta di persone “ossessionate dal complotto”. Non usa elementi di sostegno alla sua tesi. Si limita a bollare come visionari coloro, avvocati, magistrati, politici, giornalisti, scrittori, registi, che non accettano la verità di comodo costruita subito dopo la morte di Pasolini: un delitto compiuto da un minorenne sbandato che si era difeso da un tentativo di stupro. Una verità che pure fa acqua da ogni parte. Che cozza con il minimo buon senso e con i più banali riscontri. Stefano
Maccioni, avvocato, e Simona Ruffini, criminologa, (gli altri due autori del libro) con buona pace di Battista, hanno ottenuto che la Procura di Roma riaprisse le indagini. Assieme a loro ho lavorato per quasi due anni sulle carte di quel processo. Abbiamo evidenziato tutte le contraddizioni, le bugie, abbiamo ritrovato, ad esempio, il verbale d’interrogatorio del proprietario del ristorante Al Biondo Tevere, che pone enormi dubbi persino sulla presenza di Pino Pelosi insieme a Pasolini in quell’ultima tragica cena prima del massacro. Il ristoratore, Vincenzo Panzironi, descrive le fattezze del giovane che accompagnava Pasolini la sera dell’omicidio: un giovane dai capelli biondi, lunghi fino al collo, ondulati e pettinati all’indietro. Pelosi invece aveva i capelli corti ricci e, soprattutto, erano di colore bruno scuro come risulta, non solo dalle foto, ma dai verbali del medico legale. Pelosi dunque probabilmente non era con Pasolini quella sera. E allora chi ha accompagnato Pasolini all’Idroscalo di Ostia? Abbiamo raccolto nuove testimonianze che raccontano delle frequentazioni di Pasolini con i ragazzi sottoproletari dell’estrema destra catanese. Giovani squadristi che facevano su e giù dalla capitale, forse per portare a termine missioni che avevano bisogno di facce sconosciute. Una serie di fatti che si intrecciano con altri, ricostruiti prima di noi dai giornalisti Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che legano il delitto Pasolini ad altri due buchi neri della storia della Repubblica: l’omicidio Mattei e la scomparsa di De Mauro. Non a caso su entrambi la procura di Palermo, segnatamente il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, ha deciso di aprire un nuovo filone di indagine. Non solo la ricostruzione della scena del crimine indica chiaramente che ad agire fu un vero e proprio commando, composto da almeno sei persone. Un gruppo che attendeva Pasolini e il suo accompagnatore all’Idroscalo, che sapeva che lo scrittore sarebbe arrivato lì a quell’ora e quella notte. C’era un appuntamento non per questioni di sesso, ma per la restituzione delle bobine di pellicola di Salò le 120 giornate di Sodoma, che erano state rubate e che quella notte dovevano esser rese a Pasolini. Un’esca per attirarlo al mattatoio.
Uno scenario che viene confermato, senza che Battista ne faccia cenno, proprio da un articolo di Paolo Brogi pubblicato all’inizio di aprile sullo stesso Corriere nel quale viene riportata la testimonianza inedita di una persona che vive negli Stati Uniti e che è stata testimone oculare degli eventi. Anch’egli parla di un gruppo di persone e dice che all’una del mattino sul posto vi erano già i carabinieri. Un fatto, quest’ultimo, che spalanca uno scenario ancora più inquietante. Ufficialmente il delitto viene scoperto solo alle sei del mattino e Pelosi, che secondo i verbali viene arrestato intorno alle due sul lungomare di Ostia, confesserà prima – nella notte – ad un compagno di cella e poi l’indomani agli inquirenti. Se i carabinieri erano sulla scena del crimine all’una i conti, com’è ovvio, non tornano più! Altro fatto che apre dubbi inquietanti riguarda la difesa di Pelosi. Un giornalista de Il Tempo, iscritto alla P2, inviterà Pelosi a nominare come difensore l’avvocato Rocco Mangia, un “principe del foro”, che difendeva tutti gli estremisti di destra, tra i quali i massacratori del Circeo. Mangia ribalta la linea dei suoi predecessori, che cercavano di dimostrare l’innocenza di Pelosi, e punta subito sulla colpevolezza. Nomina come consulenti il professor Franco Ferracuti, anche lui iscritto alla P2, e il criminologo Aldo Semerari, legato alla massoneria, ad Ordine Nuovo, alla banda della Magliana e alla Camorra, dalla quale sarà poi ucciso per uno sgarro. Perché una tale compagnia si mobilita per difendere, o meglio per far condannare, un borgataro diciassettenne assolutamente sconosciuto? Chi ha pagato – se essi sono stati pagati – questi professionisti e a quale scopo? Tra le tante, resta senza risposta una domanda, ed è forse la più importante: perché, dopo 37 anni, cercare la verità sulla morte di Pasolini fa ancora tanta paura?
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