Nel decennio che ha cambiato la storia dell’ematologia, il caso più straordinario è quello della Leucemia Mieloide Cronica, grazie all’avvento delle terapie mirate, gli inibitori della tirosin-chinasi di prima e seconda generazione: come funzionano questi farmaci e che innovazione hanno comportato nel trattamento di questa forma leucemica?
La Leucemia Mieloide Cronica è una forma di Leucemia dovuta ad un’alterazione genetica che interviene tra due geni, BCR e ABL, situati rispettivamente sui cromosomi 9 e 22 che si fondono in un unico gene, detto BCR/ABL, responsabile della malattia. Fino ad alcuni anni fa la trasformazione di questa patologia in Leucemia maligna era inevitabile. Oggi, grazie alle nuove terapie disponibili, i pazienti raggiungono sopravvivenze sovrapponibili a quelle della popolazione generale. La ricerca, sulla base di una migliore conoscenza delle caratteristiche biologiche delle cellule tumorali, ha identificato terapie mirate, i farmaci cosiddetti “intelligenti”, inibitori della tirosin-chinasi che vanno a contrastare le alterazioni molecolari della neoplasia. Dopo l’avvento di imatinib, farmaco di prima generazione progettato per agire sulla causa molecolare della malattia, sono arrivati i TKI di seconda generazione, come nilotinib, dasatinib e bosutinib, molto più potenti e come nel caso di nilotinib, anche più selettivi. Gli inibitori della tirosin-chinasi bloccano l’attività della tirosin-chinasi, l’enzima che, attraverso una fosforilazione, sostiene l’attivazione della proliferazione cellulare. Spegnendo questa attività, i farmaci inibiscono selettivamente la crescita incontrollata delle cellule leucemiche e ne inducono la morte. Possiamo dire che la Leucemia Mieloide Cronica è un caso fortunato rispetto ad altre forme leucemiche e che questi farmaci hanno veramente rivoluzionato le terapie dei tumori.
Prima della loro introduzione, gli ematologi avevano a disposizione la chemioterapia, altamente distruttiva e con pesanti effetti collaterali, l’interferone e il trapianto di midollo osseo, gravato da elevata morbilità e mortalità in tempi brevi.
I farmaci “intelligenti, mirati e selettivi” consentono ai pazienti di godere di lunghissime sopravvivenze e di una qualità di vita pressoché normale. Con l’avvento delle terapie mirate di seconda generazione, caratterizzate da una potenza assai maggiore rispetto a quelle di prima generazione, è aumentata ulteriormente la possibilità di raggiungere risposte molecolari profonde. A questo stadio le cellule leucemiche, anche se si sospende la terapia, in due terzi dei casi circa continuano a ridursi spontaneamente senza essere più capaci di riespandersi. È come se l’organismo avesse ripreso il controllo della loro espansione e della malattia.
Oggi, dopo l’avvento degli inibitori delle tirosin-chinasi di seconda generazione come nilotinib, per i pazienti con Leucemia Mieloide Cronica si delinea la possibilità di sospendere la terapia, che di fatto significa la guarigione. Un traguardo che appare collegato al raggiungimento della cosiddetta “risposta molecolare profonda”: cosa vuol dire esattamente?
Risposta molecolare profonda significa che si è raggiunto un livello di malattia minima residua tale che con i comuni metodi molecolari, anche quelli altamente sensibili come la PCR (Polymerase Chain Reaction, Reazione a catena della polimerasi), non si riesce più a vedere i prodotti trascritti del gene BCR/ABL, il marcatore specifico della Leucemia Mieloide Cronica. Questo tipo di risposta non equivale ancora all’eradicazione ma, quando viene raggiunta, significa che le cellule leucemiche sono pochissime e inattive, ciò consente di smettere il trattamento, senza più avere recidive.
Alcuni pazienti con risposta molecolare profonda coinvolti in studi clinici che valutano la possibilità di sospendere l’assunzione del farmaco, hanno interrotto la terapia: si possono considerare “guariti”? Tra questi ci sono pazienti italiani? E qual è la portata clinica di questi sviluppi? La guarigione è un obiettivo alla portata di tutti i pazienti?
È corretto dire che questi pazienti sono funzionalmente guariti dalla loro malattia, a tal punto da non avere più necessità di sottoporsi ai trattamenti. Il follow-up a 5-6 anni dimostra che la Leucemia Mieloide Cronica non si è più ripresentata. Sono in corso diversi studi che valutano la possibilità di interrompere i trattamenti senza che si ripresenti la malattia e in questi studi sono coinvolti anche pazienti italiani che hanno smesso di assumere il farmaco.
L’interruzione della terapia ha una valenza non solo sanitaria ma anche economica e sociale. Interrompere il farmaco in pazienti in trattamento da più di dieci anni con gli inibitori della tirosin-chinasi significa in primo luogo abbattere i rischi di un’eventuale tossicità causata dalla somministrazione della terapia protratta per tutta la vita. Inoltre, la possibilità di interrompere terapie sicuramente costose ha ricadute importanti in termini di costi per la sanità pubblica. Ma, soprattutto, la possibilità di sospendere la cura libera il paziente dall’assunzione quotidiana del farmaco. Ad oggi, la guarigione è un obiettivo che può essere raggiunto dal 30-40% dei pazienti. È già un grande risultato, ma è solo il primo scalino: sicuramente nel futuro disporremo di terapie nuove e ancora più efficaci che ci permetteranno di raggiungere la guarigione nel 100% dei casi.
In vista dell’obiettivo guarigione, è fondamentale assicurare il monitoraggio della risposta molecolare in modo standardizzato. Da alcuni anni GIMEMA – Gruppo Italiano Malattie Ematologiche Maligne dell’Adulto – ha attivato il sistema Labnet, che collega in rete i laboratori italiani specializzati in biologia molecolare: come è articolata questa rete?
Si tratta di una rete laboratoristica diffusa su tutto il territorio nazionale, istituita per monitorare la risposta molecolare: se dobbiamo regolare o modificare il trattamento in base ad essa, dobbiamo essere sicuri di poter disporre per tutti i pazienti italiani con Leucemia Mieloide Cronica di tecnologie che siano sufficientemente standardizzate e che possano essere utilizzate routinariamente. La rete coinvolge 47 strutture specializzate in biologia molecolare che offrono un servizio di diagnostica avanzata per misurare la risposta alla terapia, appoggiandosi a un’unica piattaforma web collegata ai Centri clinici. Il monitoraggio della risposta molecolare è di elevato livello e privo di carico economico per pazienti e ospedali. Tre laboratori, con sede a Napoli, Torino e Bologna, ricevono, preparano, smistano e verificano i campioni di sangue.
Tutti i laboratori sono sottoposti periodicamente a controlli di qualità e tutti lavorano secondo il Manuale di procedure standardizzate (SOP). Il dato che esce dai laboratori è confrontabile, verificato e attendibile. Labnet è un esempio di buona collaborazione, che da un lato offre la possibilità di aumentare l’appropriatezza terapeutica e migliorare l’efficacia dei farmaci, dall’altro permette di porre sullo stesso piano le prestazioni dei diversi centri, indipendentemente da dove essi si trovino.
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