Parlare di nutrizione dal punto di vista meramente scientifico è impossibile; tanto l’alimentazione umana – a differenza di quella animale – è parte della storia delle culture ed è sempre attraversata da correnti simboliche. L’atto del cucinare è protagonista del passaggio dalla natura alla cultura. La parola convivio rimanda al vivere insieme (cum vivere). Condividere il cibo assimila i gruppi, crea comunità, istituzionalizza riti (la stessa eucaristia poggia su di un simbolismo alimentare: il pane e il vino simboleggiano il corpo e il sangue di Cristo). L’antropologia culturale insegna che per la specie umana invocare fatti di natura costituisce un’imperdonabile ingenuità. Difatti nessuna azione dei rappresentanti dell’homo sapiens può rientrare nella categoria
degli eventi naturali, essendo sempre provvista di un senso ulteriore. Questo concetto si verifica con facilità, per esempio, non appena ci si addentri nello studio di usi comuni, come per esempio l’abbigliamento. L’uomo non si copre semplicemente perché ha freddo ma sceglie i suoi abiti con intenti estetici, oltreché simbolici, ancorché spesso inconsapevoli. Lo stesso accade quando ci si nutre. Per l’homo sapiens l’alimentazione – oltre a dare origine ai processi metabolici della nutrizione – fa parte della cura di sé. La pratica del vegetarismo, che seguo da 40 anni, ha una tradizione antichissima e contrae rapporti con la vita spirituale non meno che con la scienza dell’alimentazione. Innanzitutto perché introduce una valenza etica e non solo dietetica nella nutrizione; poi perché crea una sospensione rispetto alle convenzioni, costringendo a una pratica di attenzione supplementare: nella scelta, nella preparazione e nel modo di consumare i cibi, che sono una delle modalità trasformative della materia – dunque alchemiche – accessibili attraverso la fisiologia. Fondamentalmente, nel mio caso fu una scelta di curiosità e di sperimentazione di un altro modo di vivere rispetto a quello tradizionale. Si deve anche contestualizzare: era il 1975, e c’era un’ansia di provare qualunque cosa ci portasse lontano dalle tradizioni. Come psicoanalista, direi che a tavola si può superare l’Edipo, perché è la mamma che cucina, dunque diventare vegetariano significò per me anche cucinare e scegliere la nutrizione, dunque, andare oltre la madre. Nell’Occidente cristiano si osservano regole di astinenza dalla carne, come nei periodi penitenziali (Quaresima). La Regola di San Benedetto, scritta intorno al 540, suggerisce un regime tendenzialmente vegetariano: “[…] l’uso della carne venga permesso agli ammalati e a quelli molto deboli: però una volta ristabiliti tutti, com’è uso, si astengano dalla carne” (36). O ancora: “Tutti si astengano dal mangiare carne di quadrupedi, eccettuato quelli molto deboli e gli ammalati” (39). In epoca moderna, il movimento vegetariano ha sviluppato implicazioni filosofiche, oltre che salutistiche, ma non religiose in senso confessionale. Fondata a metà ‘800 in
Inghilterra, la Vegetarian Society ha annoverato membri illustri, tra cui George Bernard Shaw, e professa un regime ovo-latteo-vegetaliano meno drastico di quello propugnato dai cosiddetti vegan, assertori di un vegetarismo che esclude anche i prodotti animali indiretti e il cui radicalismo rischia a mio parere di esporre a deficit nutrizionali. Non trascuriamo infine il fatto che gli oncologi più avvertiti, tra cui figura in prima fila da sempre Umberto Veronesi, raccomandano di ridurre e possibilmente abolire la carne dalla dieta. Insomma, il vegetarismo è una delle possibili scelte dell’uomo e si situa al crocevia tra conoscenze antiche e moderne acquisizioni scientifiche, tra natura e cultura.
Luigi Turinese – Medico, Esperto in Omeopatia, Psicoterapeuta www.luigturinese.blogspot.com
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