La Malaeredità, il nuovo libro di Maribella Piana


maribella piana

«La storia che racconto non è un vero romanzo. Anche se potrebbe sembrare il maldestro rifacimento di un polpettone di fine Ottocento, essa parla di uomini e donne realmente esistiti». Inizia così il nuovo romanzo di Maribella Piana, da qualche giorno sugli scaffali delle librerie, edito da Armando Curcio editore, con la premessa della stessa autrice, intenta e attenta lettrice ancor prima che premurosa scrittrice, che invita all’attenzione demonizzando la banalità, in nome di una storia di famiglia tutta «siciliana sussurrata a labbra strette». Segreti, allusioni, sussurri e spifferi di storie che furono, fra amori e illusioni patriottiche risorgimentali, narrate con una scrittura «in bilico tra il realismo di Verga e la poesia nostalgica di Quasimodo».
La malaeredità, quasi un’ombra nera che pesava sulle famiglie aristocratiche di un tempo, di che si tratta?
maribella piana«Se è vero che “ i nobili sono come le patate, tutto quello che hanno di buono è sottoterra”, come recita un nostro simpatico detto, io sono una patatina piccola piccola. Provengo da una antica famiglia nobiliare, anzi da due, e ho sempre respirato quest’aria di superiorità mista a insoddisfazione di tanti nobilotti siculi. La consapevolezza della fine inevitabile di un’epoca ha provocato da un lato il rifiuto di ogni memoria e dall’altro l’attaccamento morboso a certi privilegi. Io che ho amato il velluto liso della vecchia poltrona più del lucido metallo da design, ho conservato foto e ricordi, storie e merletti, dentro un baule magico da aprire con rispetto e amore».
Un romanzo dai sapori aspri e dalle tinte forti, cosa significa per lei questo libro?
«E’ vero, ho partorito questo libro con dolore, nel senso che mi ha provocato emozioni forti, come il timore di guardare dietro una porta socchiusa, o l’imbarazzo di sorprendere una conversazione intima, o di aprire un cassetto che custodiva segreti di famiglia. Sì, perché questa storia è una storia di famiglia, sussurrata a labbra strette, accennata in conversazioni allusive. E’ anche una storia della nostra terra, che si intreccia con le vicende private, mescolando l’amore con la crudeltà della guerra, le illusioni patriottiche del Risorgimento con la difesa di privilegi intoccabili».
Una storia che ha deciso di ambientare, a differenza delle altre, in un passato non certo recente, perché, che valore ha per Maribella il passato?
«Credo che sia abbastanza naturale all’inizio della propria esperienza scrittoria descrivere ciò che è più vicino a noi, immergendoci in ambienti e atmosfere che conosciamo bene. Andare indietro nel tempo, scavare nel passato nostro e della società richiede maturità e coraggio. Un po’ come quello che accade nei trattamenti ipnotici. Rivivendo sensazioni e sentimenti dimenticati, impariamo a gestirli e affrontarli, anche se potrebbero farci paura. L’effetto positivo di questa presa di coscienza riguarda non solo noi, ma soprattutto coloro che verrà dopo di noi. Quante storie vanno dimenticate, quante vite cadute nel nulla! Credo che sia un desiderio di eternità quello che ci spinge a scavare i reperti nella sabbia e a consegnarli alle generazioni future».
E che dire delle figure femminili che fanno da protagoniste, sono più vittime o eroine?
«Beh, credo che la mia bisnonna Concettina, detta Conca in famiglia, non volesse essere né l’una né l’altra. Se la immaginiamo stretta nel busto delle convenienze e delle abitudini, isolata dal modo a causa dei suoi privilegi di casta è sicuramente una vittima, ma se la vediamo leggere e informarsi, guardare con occhi nuovi la società, ribellarsi alle regole pagando il prezzo più alto che una donna possa pagare, si illumina di un’aura di eroismo. Forse però tutte le donne conoscono questa doppia faccia e riescono ad essere l’una e l’altra e a trarre la loro forza dalla loro apparente debolezza».
Da siciliana a siciliana e da donna a donna, in riferimento a quanto detto, cosa è cambiato e cosa ancora rimane nel sottobosco culturale della nostra isola?
«Le donne di oggi, qui in Sicilia, non hanno nulla da invidiare al resto del mondo quanto a indipendenza, creatività e autostima. Devono solo imparare a reprimere l’istinto di alzarsi per prendere la saliera quando il coniuge alza smarrito lo sguardo dal piatto…, scherzi a parte, le donne intelligenti hanno fatto passi da gigante e sono convinta che riusciranno a tirarsi dietro anche le più timide e insicure».
La maggior parte dei suoi romanzi hanno come sfondo la nostra Sicilia, cosa c’entra in tutto questo, se c’entra, il concetto di “sicilitudine”, può -forse- la nostra origine caratterizzare in maniera univoca e indelebile la nostra scrittura, la nostra anima, la nostra vocazione letteraria?
«Siamo imprigionati tra due affascinanti amanti assassini: il mare e il vulcano. Due stupendi mostri che ci possono condurre alla felicità o alla morte. Non possiamo sfuggire, possiamo solo fuggire. Siamo sudditi e sovrani. Questa continua lotta crea negli isolani, in tutti gli isolani credo, ma soprattutto in noi che viviamo in mezzo a forme di natura così selvagge e potenti, caratteri aspri e sognanti, nella eterna lotta fra realtà e sogno. Siamo contadini e pescatori, ma anche filosofi e poeti, il paesaggio siciliano contiene le rocce dure di lava e le onde fresche del mare, e così la nostra scrittura è un Giano bifronte, in bilico tra il realismo di Verga e la poesia nostalgica di Quasimodo».

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