Pif ironizza, presenta, dialoga con il pubblico. Prima con quello catanese, poi con quello palermitano. Nella sua Sicilia ha presentato il suo secondo film “In guerra per amore” nelle sale cinematografiche dal 27 ottobre 2016. E non nasconde l’ansia sottolineandola durante la serata di presentazione alle Ciminiere, nel capoluogo etneo. Sul palco si alternano gli attori del cast impegnati in mini gag che anticipano trailer di film mandati in onda sul grande schermo.
La storia è ambientata nel 1943, durante lo sbarco in Sicilia degli alleati. Mentre il mondo è nel pieno della seconda guerra mondiale, Arturo vive la sua travagliata storia d’amore con Flora. I due si amano, ma lei è la promessa sposa del figlio di un importante boss di New York. Per poterla sposare, il protagonista deve ottenere il sì del padre della sua amata che vive in un paesino siciliano. Arturo, che è un giovane squattrinato, ha un solo modo per raggiungere l’isola: arruolarsi nell’esercito americano che sta preparando lo sbarco in Sicilia, l’evento che cambierà per sempre la storia della Sicilia, dell’Italia e della Mafia.
Intervista a Pif
Come ha scelto i suoi attori?
“Tutti attraverso vari incontri e provini filmati, tranne Miriam Leone perché ero sicuro, fin dall’inizio, che la Flora che cercavo fosse lei. Per il ruolo di Philip Catelli, mi hanno suggerito Andrea Di Stefano. Stella Egitto l’avevo conosciuta in occasione del mio primo film quando cercavo l’attrice giusta per interpretare il ruolo della protagonista da grande (per cui poi ho scelto Cristiana Capotondi) e ne ero rimasto molto colpito, poi la bambina scelta era bionda e Stella era bruna e ancora troppo giovane e non se ne fece nulla. Ma stavolta era giusta e ho pensato subito a lei. Per il ruolo di don Calò, impegnato nel monologo finale, ho scelto poi Maurizio Marchetti”.
Come è nato questo film?
“Ho scritto ancora una volta il soggetto e la sceneggiatura con Michele Astori e Marco Martani con l’intento di ambientare una storia nel periodo della Resistenza e in particolare su un momento della Liberazione di cui non si è mai parlato abbastanza, lo sbarco delle forze alleate in Sicilia nel 1943 (un anno prima rispetto a quello in Normandia) che ha segnato indelebilmente il nostro Paese, caratterizzato da un patto di collaborazione e di alleanze strette con la mafia, destinate a durare nel tempo. Volevamo raccontare un fatto inedito, un aspetto della liberazione poco indagato dal cinema: in Patton generale d’acciaio, un film del 1970 scritto da Francis Ford Coppola e diretto da Franklin J. Schaffner, ad esempio, il racconto delle vicende belliche del celebre comandante americano che si spostava dal Nord Africa a Napoli evitando qualsiasi riferimento al periodo da lui trascorso con gli Alleati in Sicilia. Nello stesso anno era poi uscita nelle sale anche una commedia di Nanni Loy con Nino Manfredi e Peter Falk intitolata Rosolino Paternò soldato che, pur essendo ambientata al momento dello sbarco del 1943, non faceva alcun riferimento alla mafia. L’argomento era assolutamente inedito anche se, in fase di scrittura, abbiamo pensato che forse stavamo ragionando con un’ottica da osservatori dei nostri giorni, dotati di un senso antimafia che all’epoca non esisteva. Dubbi che sono svaniti quando, durante le nostre ricerche, abbiamo scoperto a Londra un documento originale recentemente desecretato che ci ha tolto ogni preoccupazione”.
Cioè?
“Quella del cosiddetto Rapporto Scotten, dal nome dell’ufficiale al quale, nel 1943, fu chiesta una relazione scritta sul tema Il problema della mafia in Sicilia. Questo rapporto ci ha confermato che la questione mafia per gli americani in guerra era all’ordine del giorno e che, già durante la guerra, il capitano Scotten valutava l’opportunità di combattere la mafia per tenerla sotto controllo, oppure quella di accordarsi e allearsi con Cosa Nostra, ipotesi che avrebbe creato danni incalcolabili di cui il futuro avrebbe presentato il conto, o infine quella di abbandonare l’isola alla mafia e chiudersi in enclave. La lucidità di questa analisi, per cui gli americani e gli inglesi erano pronti a scendere a patti con Cosa Nostra, ci ha colpito molto”.
Che cosa avete scoperto sugli “accordi indicibili” dell’epoca destinati a durare nel tempo?
“Secondo la “vulgata” più nota, nel 1943 gli americani chiesero il permesso alla mafia per sbarcare sull’isola ma questo non è vero perché la decisione fu presa ad altissimi livelli da Churchill e Roosevelt insieme a Stalin. Può anche darsi che qualche storico sposi la tesi del male minore, essendo stata la Sicilia la prima zona dell’Italia e dell’Europa ad essere liberata dagli alleati. Dai documenti dei servizi segreti americani risulta evidente che la mafia non è stata considerata come un’organizzazione da tenere alla larga in quanto criminale ma come un interlocutore alla pari. Quello che l’opinione pubblica non sa, o sa molto poco, è che la mafia dal 1943 in poi entra in un equilibrio mondiale che le permette di prosperare perché si pone in chiave anticomunista (nel 1943/44 in Sicilia il PCI è più forte della neonata Democrazia Cristiana e sta per essere realizzata la riforma agraria). Cosa Nostra ha avuto il compito di mantenere un equilibrio e un ordine prestabilito, in fondo gli alleati liberarono il Nord grazie ai partigiani e il Sud grazie alla mafia. Noi mostriamo come il boss Lucky Luciano venne scarcerato negli Stati Uniti ed estradato in Italia “per servizi resi durante la seconda guerra mondiale”: gli americani non conoscevano la Sicilia e iniziarono a conoscerla tramite la mafia e questi contatti rappresentarono l’inizio di un patto destinato a protrarsi nel tempo, con la Repubblica italiana che avallò questa scelta. Il nostro racconto si ferma però al 1943, tutto arriva dopo. Sono state provate nel tempo le sistematiche repressioni delle attività sindacali, i legami della mafia negli anni ’60 e ’70 con i tentativi di golpe neofascisti, con associazioni e crimini di estrema destra, la loggia massonica P2 eversiva e reazionaria e le esecuzioni plateali degli esponenti progressisti di
qualsiasi schieramento per cui è lecito concludere che sino alla fine degli anni 70 non c’è mai stata in Italia una reale volontà politica di combattere Cosa Nostra. Non è un caso che l’equilibrio generale si incrini dopo il 1989 quando con il Muro di Berlino in pezzi cade ogni paravento; due mesi dopo la sentenza definitiva del maxiprocesso a Palermo viene ucciso il politico di riferimento della mafia, Salvo Lima, e cambia il vento.”
Lei sapeva qualcosa su questo argomento prima di documentarsi per il film?
“Non conoscevo questa storia, ho iniziato a studiarla circa due anni fa, mentre preparavo una serata speciale Rai condotta da Fabio Fazio in occasione dei 70 anni della Festa della Liberazione. Mi avevano chiesto di fare un collegamento dalla spiaggia di Gela, dove avvenne lo sbarco delle Forze Alleate. In quei luoghi ho incontrato parecchi novantenni che ricordavano benissimo i soldati americani sull’isola, attesi da tempo, e usavano tutti l’espressione “non si vedeva più il mare”.
La preoccupano le reazioni di politici e storici?
“Probabilmente non andrà tutto liscio come per il mio primo film ma storicamente quello che raccontiamo è inattaccabile: ho sottoposto la sceneggiatura a vari storici e tutti mi hanno dato il loro assenso. I libri pubblicati sull’argomento non sono moltissimi, ma tendenzialmente i fatti sono quelli e rivelano, ad esempio, che il governatore della Sicilia Charles Poletti, neoeletto dopo lo sbarco e responsabile degli affari civili e militari, una volta trasferitosi a Napoli aveva accanto a sé come braccio destro e interprete il boss Vito Genovese. Alcune fonti, poi, affermano anche che l’allora diciannovenne Vito Ciancimino, futuro sindaco di Palermo condannato per mafia, all’epoca aiutava Charles Poletti come traduttore a Palermo, ma sono in corso dispute tra studiosi, questa parte storica è stata tenuta volutamente tra parentesi”.
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