Seduti al centro della tribuna del Teatro Brancati di Catania, durante la pausa tra il primo e il secondo spettacolo poco prima che arrivi il pubblico, incontriamo Riccardo Maria Tarci in scena fino all’otto marzo ne “Il Berretto a sonagli”. Approfondiamo insieme all’istrionico attore alcuni importanti aspetti della sua intensa vita professionale soffermandoci sulla complicata realtà teatrale italiana.
Interpreta Don Fifì diretto da Romano Bernardi. Questo è il secondo Pirandello che interpreta …
“Romano Bernardi ha voluto dare al testo un aspetto più campestre. Il personaggio di Fifì è più presente rispetto alla versione italiana, nella quale è quasi inesistente. In questa messa in scena viene esaltato il rapporto familiare in una situazione difficile. Siamo in un contesto, che per certi versi ricorda il racconto dei nonni in cui era normale tradire la moglie, la quale doveva continuare a vivere il proprio rapporto matrimoniale come se niente fosse successo. Beatrice, donna estremamente moderna, sconvolge i dogmi dell’epoca cercando di ottenere giustizia e riscatto umano con la separazione dal marito traditore. È un testo che emoziona e in sala a fine spettacolo è facile scorgere tra il pubblico occhi arrossati”.
Sarà tra i protagonisti nella nuova serie de “Il giovane Montalbano”. Quale sarà il suo ruolo e come si sono svolte le riprese?
“Interpreto Santino La Rocca, titolare di una fabbrica di fuochi d’artificio bruciata dalla criminalità organizzata. Ricordo che la sera prima delle riprese ero impegnato sul palco del Brancati per il debutto de “Il medico dei pazzi”. Un collega mi prestò la sua auto per arrivare a Scicli, ho dormito poche ore a casa di mia madre per essere sul set alle sei. I miei compaesani mi hanno accolto calorosamente e le riprese si sono svolte in un clima quasi familiare. La prima scena che abbiamo girato era un pò delicata per via degli effetti speciali. Fiamme, botti e fumo sono stati i veri protagonisti”.
Si forma alla scuola dello Stabile sotto la guida del Maestro Di Martino. Cosa ricorda di quegli anni?
“Quasi tutto. Ricordo il rigore e la disciplina di Giuseppe Di Martino. Oggi ci sono pochi maestri come lui, solo Romano Bernardi e il compianto Luca Ronconi possono essere paragonati a tale professionalità, perché non credo che esistano più i grandi maestri. Ripeteva sempre una frase a noi giovani attori: “Voi siete il Teatro Stabile di Catania è questa la vostra carta d’identità, sappiate che è una responsabilità importante”. A volte era eccessivo ma sapeva bene cosa significasse fare questo mestiere e, soprattutto, insegnarlo a tutti quei ragazzi come me armati di sogni e speranze”.
Tutti hanno dei sogni nel cassetto, il suo era recitare. Cos’ha provato quando ha capito che il suo desiderio stava prendendo forma?
“Custodivo da bambino questo sogno e quando sono arrivato allo Stabile era, per me, trovarmi e vivere in un tempio. La prima volta che salii sul palco del Verga, con lo spettacolo “Bellini” di Piero Isgrò, piansi. Facevo il servo di scena, non avevo battute ero un figurante, ma ricordo che alzai gli occhi verso la graticcia e dissi: “Sono qua”. Un momento che ancora oggi con trent’anni di carriera alle spalle mi fa commuovere”.
Com’è cambiato il teatro da quando ha mosso i primi passi, cosa c’è oggi che non funziona?
“La realtà teatrale è cambiata parecchio, al di là dei tagli e delle cattive gestioni dei politici, il teatro si è perso a causa della tanta contaminazione televisiva. Pochi fanno buon teatro. Molti attori italiani non hanno una preparazione, perché provengono da scuolette di cinema senza grandi pretese e non sanno cosa significhi veramente studiare e interpretare un ruolo. Si è persa l’identità dell’attore. Non ci sono più neanche gli sceneggiatori, si scrivono e si propinano al pubblico cose assurde. È necessario rischiare, perché se non si investe nelle novità è difficile restare sul mercato. Spero che si cambi rotta, perché il momento è tragico e si rischia la chiusura totale e definitiva”.
Per questo, secondo lei, il pubblico si è allontanato dalle sale?
“Gli spettatori non sono educati al teatro, probabilmente, perché è compito di chi deve far vivere questo mondo stimolare l’interesse ed emozionare la gente. È necessario raccontare delle storie fatte bene, perché il pubblico si accorge subito se un testo regge o meno. Oggi tutti questi programmi diciamo “stupidi” aiutano a non pensare. Stiamo facendo invecchiare il teatro, perché si bloccano le porte alla novità di giovani autori che hanno molto da dire e si continuano a fare le stesse cose che si facevano cento anni fa. Si sta perdendo il mistero e la magia del teatro”.
(ride)
“La memoria dell’attore è una delle cose fondamentali di questo mestiere. Capita di essere impegnato quasi contemporaneamente in quattro spettacoli, ma riesco tranquillamente a non far litigare nessuno dei miei personaggi tra loro. (ride) Quando scendo dal palco stacco la spina e vivo pienamente la mia vita e miei affetti”.
Scrive anche commedie, che sono state rappresentate con successo. Cosa prova, quando pur non recitando sul palco, la sua anima parla attraverso la voce dei suoi colleghi?
“Non oso definirmi autore, anche se sono iscritto alla Siae. Potrei paragonare questa sensazione alle sfumature delle note musicali che pur essendo sette riescono a trasformarsi donando emozioni diverse ed intense”.
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